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あいまいな日本の私 (aimai na nihon no watashi) Io e il mio ambiguo Giappone

Il Giappone può creare dipendenza. Anzi, il Giappone crea dipendenza. E non sto parlando della sottoscritta (che ogni volta diventa un tutt’uno con tutto ciò che fa, come fosse la prima, l’ultima, l’unica cosa fatta, che farà, da fare), che sarebbe troppo facile, ma sto parlando di persone casuali, sorteggiate nella folla o pescate in una libreria, in una fumetteria, in un supermercato. Ed è un’attrazione che percepisco essere così diversa da quella verso l’Africa (che può essere il ritorno alle origini o il tuffo nella madre terra, la necessità di vedere come sta la parte “sbagliata” del mondo, il bisogno di fare qualcosa per gli altri – forse una piccola dose di altruismo necessaria a lenire il nostro buon vecchio senso di colpa occidentale) o da quella verso gli Stati Uniti (la libertà del sogno americano, gli spazi sconfinati, la differenza fra l’infinitamente piccolo della campagna americana e l’infinitamente grande della metropoli americana) che io non mi so spiegare in maniera chiara e unilaterale. E quando mi chiedono: ma perché proprio il Giappone?? io ho sempre bisogno di molto tempo e di molta pazienza da parte del mio interlocutore. Credo che il Giappone sia una metafora di me stessa – e per questo lo amo e per questo lo odio.

Rispondo che il Giappone più l’ho conosciuto più mi ha respinto. La stratificazione sociale, l’etichetta femminile, la rigida divisione fra le classi, il futuro inevitabile e precostituito sono tutte cose che mi hanno fatto chiedere se era il posto giusto per una come me. Eppure tutte queste cose appena elencate sono raziocinio, sovrastrutture e sottopensieri, perché alla sola idea di poterci tornare mi spunta un ampio sorriso sulle labbra! Mi basta un’occhiata a un blog come quello di Laura Imai Messina perché la voglia di Giappone riaffiori chiara, netta e decisa. Cibo, colori, alberi, vestiti, caos, volti, metropolitane, strade, suoni, edifici. Quando qualcuno ti racconta del Suo Giappone è facile che l’insieme intersezione col Tuo Giappone abbia sempre qualche elemento.

L’idea di andare a vivere in Giappone mi attirava moltissimo tra la fine delle superiori e la fine della specialistica. Diciamo che era lo sprone che mi spingeva ad andare avanti nonostante tutto e nonostante tutti e che riuscivo ad affrontare le mie cose – adolescenziali prima e tardoadolescenziali poi – con la giusta leggerezza e noncuranza nei confronti delle loro conseguenze (tutte conclusioni che ovviamente raggiungo oggi, a distanza di qualche anno) in virtù del fatto che tanto un giorno me ne sarei andata e avrei potuto ricominciare tutto da zero da qualche altra parte…quindi tanti saluti! Vi piaccio? Non vi piaccio? Tanto massimo 2/3 anni me ne vado! Forse questo mio modo di affrontare la vita (che ho quasi da sempre e che tutt’ora mi riconosco) è frutto del mio essere girovaga e senza radici sin da piccola? Ovviamente la risposta non la so, ma tant’è.

Inoltre ultimamente sono sempre più mortificata dalla percezione di quanto sia difficile parlare in un’altra lingua. E non parlo di sopravvivenza o di efficacia comunicativa, ma delle sfumature necessarie a parlare di sé, dei propri sentimenti e del proprio punto di vista sul mondo. Quando mi accorgo che lo so fare in inglese mi sento davvero molto brava! Per non dire delle pochissime volte in cui sono stata in grado di farlo in giapponese, verso la fine del mio soggiorno a Tokyo. Eppure, quando torno alla libertà del Mio italiano, mi accorgo che quello che ero riuscita a dire nell’Altra lingua era quasi nulla. Come si fa a parlare di amore, di futuro, di figli, di divergenze col proprio partner in una lingua che non è la propria? Si deve avere veramente una testa doppia, tripla, quadrupla…gigante! Oppure, come in tanti casi, bisogna avere gradi superiori di pazienza, umiltà, capacità di dare alle cose la giusta importanza.

Insomma, il corso delle cose ha voluto che io trovassi (ritrovassi?) delle persone e delle situazioni alle quali non avevo più bisogno di dire “fanculo! tanto fra 2 anni non ci vedremo più!” proprio Qui e Ora, senza bisogno di scappare dall’altra parte del mondo. Tanto più che il paradiso dell’eterno dualismo Tradizione-Innovazione, Antico-Nuovo, Occidente-Oriente, Natura-Metropoli che conosciamo bene noi che il Giappone l’abbiamo letto studiato amato tradotto scoperto sui libri di scuola, è appunto un paradiso e come tale va immaginato e visto ma solo da lontano. Il Giappone della perfetta armonia tra ognuno dei suoi due risvolti della medaglia è qualcosa a cui si può credere come quando da bambini si pensava che i genitori fossero sempre allineati su tutto. Col tempo ho imparato che alcune parti di me erano meglio espresse in Italia piuttosto che in Giappone – e questo certamente non me lo sarei mai potuto immaginare! Con tutte quelle Gothic Lolita, tutti quegli shōjo manga, tutta quell’attenzione alla natura, tutto quel silenzio dei templi, tutti quei mezzi di trasporto superefficienti, tutti quei giapponesi…doveva per forza essere il posto giusto per me!! Eppure…

 

Da molti anni non mi chiedo più
quale posto è la mia casa
ho scoperto che la mia casa
è insieme a me dovunque vada.

Cambiare. Fondamentale. Chiudere per sempre col passato. Bastano cose piccole: decidere di farsi i buchi alle orecchie, cancellare un numero dalla rubrica, buttare un diario. Cose sempiterne non ne esistono. Esistono solo sensazioni che sfuggono, corpi in continuo cambiamento, partenze improrogabili. Prima di partire, se ne avessi avuto il tempo, vi avrei scritto un lungo post, ma il tempo mi tiranneggia e mi impedisce di vivermi appieno. Volevo scrivervi che quando parto, scrivo sempre un e-mail per tutti, un sms o qualcosa di simile, perché trovo che le partenze per posti lontani, anche per brevi archi di tempo, siano sempre da far notare a chi ci sta attenti. Quando sono andata in Giappone ho chiesto ad ognuna delle persone a cui tenevo di darmi una cosa che le apparteneva, cosicché nel momento del bisogno avrei avuto attorno tutte i miei più cari. Una maglietta dei Cavaliers dalla Monica, un anello israelita dalla Lussi, un bracciale di bronzo dall’Annina, un statuina di un pensatore dalla Chiara Caprioli, un braccialetto di pile dalla Pucciu, un laccio da Faso, un filo azzurro dalla Viola, un paio di posate dall’Ele, la bussola di squadriglia. Avrei avuto attorno ogni singola persona. E questo gesto, non solo per scaramanzia ma anche perché ogni volta che parto, spero di rimanere per sempre nel posto in cui vado. Sparire e non lasciare traccia di me se non nelle persone a cui tengo. Sarei voluta sparire in Giappone, sarei voluta sparire in Sicilia. Sparire, morire, per me non fa differenza. Ci sono momenti in cui non ho una particolare voglia di esistere. E allora si prova a cambiare. Cambiare esternamente, anche per segnare un cambiamento interno. Lascio tracce di me in giro per i cuori incontrati sul mio percorso. Mi mostro al mondo come vorrei mostrarmi a me stessa. Nella mia vita quotidiana (e con me stessa per prima) mi mostro diversa da quella che vorrei essere davvero. Si tratta di non riuscire a trovare un posticino ritagliato apposta per me. Non sono la pazza, non sono la riflessiva, non sono la ridanciana, non sono la canterina, non sono nulla di tutto ciò. Non sono una figura riconducibile a nulla di prevedibile, non sono una sagoma, ne’ un personaggio. Sono me stessa solo con coloro a cui tengo (come la Monica ben sa), e non per timidezza o per pigrizia, ma per alterigia. Voglio donare la mia vera personalità solo a chi se lo merita. Gli altri pensino ciò che vogliono. Grazie amici.                   Un bacio