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INVICTUS – in Memoria di Adama Kanoute

IMG_6598Questo ragazzo aveva 31 anni quando lo scorso 7 maggio si è suicidato in via Ferrante Aporti vicino al numero civico 81. Era un richiedente asilo proveniente dal Mali, chissà da quale fame (di cibo di futuro di lavoro di alternative di pace) fuggiva, ma non importa perché la stampa non gli dà neanche un nome o un volto – oggi neanche la benché minima attenzione.

ADAMA KANOUTE, noi non ti dimentichiamo.

#ricordareisopravvissuti
#sopravviverealricordo

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Tegan and Sara (live @Magazzini Generali – 10 nov 2013)

(inizio dalla fine, giusto perché la fine è stata la cosa più minuscola e irrilevante dell’intero concerto, ma vale la pena di annotarla comunque)
A fine concerto ci stiamo dirigendo verso l’uscita, mentre la Campo continuava a cantarmi il suo adorato ritornello di Living Room, e mettono su il solito disco per farti capire: no, non ci saranno altre canzoni, andatevene a casa!, di cui mi ritrovo a seguirne il ritmo mentalmente, pensando fosse una delle canzoni sentite durante il concerto e a me sconosciute che però mi erano piaciute. Fino a quando non capisco che era I follow rivers, unica e quindi iconica colonna sonora de La vie d’Adèle, che avevo cantato e ballato per tutto il weekend in giro per casa. E quindi ho ballato da sola, in mezzo ai Magazzini, una canzone che non c’entrava niente col motivo per cui eravamo tutti lì.
…oppure c’entrava?

Rendersi conto che in quei pochi attimi di buio e silhouette degli strumenti, tra quando il disco messo su per lenire l’attesa del trepidante pubblico viene interrotto bruscamente (e lo sfumare del volume è davvero poco credibile – ma tanto in fondo lo sappiamo tutti) e quando poi arrivano davvero loro 2 sul palco, rendersi conto che un po’ di batticuore ce l’hai. Ricordarsi in quei 5 o 6 secondi di quando hai sentito la meravigliosa Amanda Palmer che cantava Hell in playback per le strade della grande mela ed era l’estate in cui eri appena tornata dal Giappone e studiavi pigramente le unità di giapponese a memoria saltando da un video di youtube all’altro; e poi hai ascoltato Alligator a ripetizione e ce l’avevi continuamente in testa e sei arrivata a sentirla una domenica mattina presto al terzo piano di una casa magrissima con le finestre sul campo del Gheto Novo mentre ti sentivi una gran troia e in fondo la cosa non ti dava neanche troppo fastidio; e poi hai litigato a lungo perché loro sono gemelle e sono lesbiche, e questa cosa non è strana e meravigliosa? E poi arrivano davvero sul palco e sono a pochi metri da te ed è il primo concerto per cui paghi 30€ (un prezzo altissimo al minuto!! =P) ed è il primo concerto di qualcuno conosciuto anche al di fuori della tua gente, di Bergamo, della Lombardia, dell’Italia e quindi ti dici, cavolo, c’è qui gente da tutt’Italia e nell’aria senti commenti anglofoni e vedi acconciature e scarpe che tutto sono fuorché italofoni… allora sono ad una cosa grande. Poco importa che i Magazzini siano pieni neanche per metà e che non ci sia security e che cocktail e merchandising costino quanto a tutti gli altri tuoi concerti pattoni, perché intorno a te tutte sanno le canzoni a memoria, parola per parola, accento per accento e sanno esattamente chi è Tegan – che sei ancora l’ultima sulla terra a pronunciare Tegan e non Tigan, come tutti – e chi è Sara (e sono tutte innamorate di Sara) e tanto basta. Per te invece con l’inglese non è mai stato facile e poi, per te, sono davvero ancora uguali e irriconoscibili e poi come si fa a dire di preferire una all’altra!? Sono gemelle!! Sono uguali!! (a fine concerto mi ritrovo innamorata di – quella che mi viene indicata essere – Tegan, alla faccia delle mie incredulità iniziali). Insomma, ne è valsa la pena? Ovviamente sì e, anche se è passato tutto in un lampo, c’è stato per diventare complici coi vicini di concerto, per godere del siparietto da posta del cuore improvvisato da Tegan (non ci speravi che succedesse anche qua, come in tutti quei video di youtube girati nei locali sparsi per Canada e USA), per cantare le 2 o 3 rime imparate per l’occasione, per urlare acutissima tra una canzone e l’altra, per accorgersi della mancanza di proprio quelle canzoni che dai come si fa a non farle!?, per disprezzare e invidiare quelle col Pass Vip (che neanche la volpe con l’uva) e, soprattutto, per essere libere di amare.

 



Scaletta
Drove Me Wild
Goodbye, Goodbye
Back In Your Head
The Con
Walking With A Ghost
I Couldn’t Be Your Friend
Now I’m All Messed Up
I Was A Fool
Sentimental Tune
Where Does The Good Go
You Wouldn’t Like Me
Alligator
Arrow
Nineteen
Love They Say
Shock To Your System
How Come You Don’t Want Me
Feel It In My Bones
Closer

Encore (cioè quando vanno via facendo finta che il concerto sia finito e poi invece tornano ancora sul palco…)
Call It Off
Living Room

(per le foto, ogni diritto e bellezza sono di Sergione Infuso – http://www.sergione.info/ – sarebbe inutile prendersene qualunque vago merito dato lo scarso risultato ottenuto col mio smartphone, evidentemente dal bassissimo Q.I.)

http://lezpop.it/tegan-sara-e-le-preghiere-esaudite/
http://lezpop.it/tegan-sara-concerto-milano-siete-pronte/

non chiedermi di dove sono, perché vuoi solo risposte brevi

Di Genova i miei Uochi Toki non ne parlano. Forse non c’hanno mai abitato, forse è più utile descrivere i proprio piccoli paesi piuttosto che l’ennesima pittoresca città così famosa da avere persino un nome in inglese. Però a me è piaciuta. Mi piaceva soprattutto l’idea di poter prendere sempre un vico diverso per scavallare la collina e arrivare all’Acquario al mare a Luzzati alla Cibio a farmi rubare il portafoglio. Non c’è nulla che a Genova mi sia mancato, ho anzi avuto cose che nemmeno immaginavo come i ricci di Fil e le chiacchere con l’Ales. Mi è piaciuto abbracciare la notte ed essere presa per mano di giorno e prendere sotto braccio la sera e stringere la pancia appena sveglia. Mi sono piaciute le notti che si allungavano fino alle 4 del mattino con una tale tranquillità da non farmene neanche accorgere e poi le mattine che neanche le sfioravi perchè aprivi gli occhi tra mezzogiorno e l’una certa che nessuno in casa fosse già sveglio. Mi è piaciuta quella casa con le stanze talmente grandi da avere anche lo spazio per ballare e ho trovato disarmante la tranquillità con qui queste stesse stanze fossero condivise con sconosciute conoscenti di coinquilini appena arrivati che neanche sai chi sono ma già li adori e ti fidi di loro. Mi sentivo a casa mia. Mi piaceva pensare di essere lo stesso tipo di persona. L’unica cosa che avrei voluto sentire un po’ di più era il G8. Avrei voluto camminare per Piazza Alimonda e commuovermi un po’. Ma non ce n’è stato il tempo e il modo, e forse è solo una scusa in più per tornare a trovare il Cecco e i suoi adorabili pescetti decora e mammiferoni vegetariani.

Il 30 aprile ero a Voghera (è una città comunemente detta trascurabile, solo che io riesco a distinguere il suo livello di insignificanza dalle altre città di eguale insignificanza. In questo luogo abbiamo trascorso gli anni del liceo e oltre senza le cosiddette possibilità che una grande città offre, senza lamentarci, senza l’aspirazione di spostarci a tutti i costi in agglomerati urbani più grandi per sancire un crescere fittizio. I nostri coetanei pretendevano dei subitanei momentai motivi di distrazione, ci trattavano come buffi estranei quando non ci dimostravano simultanei negli ambienti, nei discorsi, nel prendere parte a tutto. Noi sapevamo che il loro tutto per noi era sempre una parte del tutto. A sedici anni sapevo già che la soluzione della mia inerzia non l’avrei trovata in una città più grande. Siamo sempre stati distaccati, ci siamo sempre fatti i cazzi nostri, vagando a piedi per gli spazi che, oltre ad essere vissuti, venivano anche osservati. Sottolineavamo un gap già esistente fra noi e una città come tante altre) a trovare mia cugina, in uno di quegli incontri che da piccola i parenti di passaggio facevano ai miei e che io trovavo tediosi fino all’inverosimile. Persone che non hanno niente in comune, se non qualche quarto di sangue e qualche notte insonne, che si trovano per parlare di nulla. E invece è stato buffo e divertente, e mia cugina sembrava ancora più bassa del solito. Il che dà adito a pensare che alla bassezza non c’è mai fine.

La maggior parte del tempo la passo a Milano (è la città dove sono nato, e alla quale non appartengo per niente, nemmeno nelle frequenti volte in cui torno in questo luogo spoglio ed impassibile, nel quale anche la pretenziosità perde il suo significato. Dietro ogni edificio ci sono dubbi sul perché sia stato progettato, oppure i furbi che inseriscono costruzioni sottili in spazi febbrili per rendersi invisibili. Dietro mille iniziative tutte uguali si possono vedere i vuoti cosmici degli abitanti imperterriti nel tentativo di dimostrare che esistono degli ideali, nei tentativi di risultare propositivi, per poi fallire coscientemente davanti alla potenza dei vuoti spinti caratteristici degli ambienti pieni di propositi avveniristici. Ci sono tuttavia molte persone che sanno quale sia lo spirito di questa città, e che lo interpretano con la sufficienza, con la sbarrata emozionalità. Per questo vado a Milano quando voglio ristabilire la mia tranquilla freddezza, la mia voglia di niente: Milano è un interessante punto di partenza, pieno di cose non iniziate ed extracomunitari global disillusi.) dove ci sono cose da fare a bizzeffe e dove mi piace, seppur nella mia pigrizia e lentezza, pensare di poterle fare tutte. Una alla volta. In questi mesi a Milano ho visto il quartiere cinese, Priscilla a teatro, il Museo della Scienza e della Tecnologia con annessa mostra Buon Appetito!, la settimana del FuoriSalone, il Parco Lambro. E ovviamente ho fatto un sacco di aperitivi a 10 euro (ma non andrò oltre, perchè qui si parla di Uochi Toki e non di Stato Sociale). E mi sono divertita, non c’è che dire.

Ogni due settimane vado a Bologna (mi piace solo perché c’è un sacco di gente con cui litigare e tante costruzioni da osservare. Odio la multi-identità che questa città si porta dietro, odio la sua tradizione di libertà conservante, odio la gente non autoctona — cioè la maggior parte. Vedo flussi di gente come fiotti di sangue da ogni parte: risalgo la corrente per capire da dove parte questo flusso umano che mi coinvolge come un davanzale in marmo. Mi adatto nella misura in cui mi permetto di andare in giro e osservare come animali questi esemplari di umani, studentesse fuori sede ed universitari inconsciamente ipocriti in cerca di prede e di un passato da raccontare. E poi la ritualità di questo luogo influenza solo colui che ci crede, colui che non vede la data di scadenza sul ricambio generazionale, rischiando di trovarsi in una città, in un locale pieno di gente di passaggio, facendo finta di non stare invecchiando. Solo i veri duri possono abitare a Bologna, sfruttando la corrente del divertimento alternativo con il giusto peso negli occhi. Una città non può essere solo università, slogan, ebbrezza e ragazze. Guardate meglio!) e anche lei mi piace. è l’ennesima città da girare a piedi, dato che ha la fortuna di avere la stazione ferroviaria ad un passo da tutto. A Bologna ci incontro la mia profe, che mi racconta tutta la sua Storia e alla qualche faccio domande che la fanno sorridere e poi addirittura ridere. E a Bologna giro col naso per aria e la frangia appiccicata alla fronte, un po’ per il caldo un po’ per la pioggia. Mi piace la sua aria da città vissuta che ne sa tante ma le piace sfoggiare un’aria un po’ sempliciotta un po’ campagnola. Pasticcerie di alta classe con pareti a tutto vetro; dieci metri dopo, portici lerci che fanno tanto ’77 e Radio Alice e pianoforti da dipingere.

Il titolo è evocativo in proposito del mio sorriso quando gli sconosciuti mi chiedono di dove sono, dando per scontato di volta in volta che io sia di Bergamo di Parma di Milano. Mi piace non essere di nessun posto in particolare. E so di essere molto adolescente in questo.