Archivio tag: Letteratura americana

“The Corrections” by Jonathan Franzen

Once, when he was a boy, there was a total eclipse of the sun in the Midwest, and a girl in one of the poky towns across the river from St. Jude had sat outside and, in defiance of myriad warnings, studied the dwindling crescent of the sun until her retinas combusted. “It didn’t hurt at all,” the blinded girl had told the St. Jude Chronicle. “It felt like nothing.”

"Pastorale Americana" di Philip Roth

Che gli uomini fossero creature multiformi non era certo una novita' per lo Svedese, anche se era sempre un po' uno choc doverlo constatare nuovamente ogni volta che qualcuno ti dava una delusione. Cio' che lui trovava stupefacente era il modo in cui gli uomini sembravano esaurire la propria essenza – esaurire la materia, qualunque fosse, che li rendeva quelli che erano – e, svuotati di se stessi, trasformarsi nelle persone di cui un tempo avevano avuto pieta'. Era come se, mentre la loro vita era ricca e piena, essi fossero in segreto, stufi di se stessi e non vedessero l'ora di liberarsi del loro discernimento, della loro salute e di ogni senso delle proporzioni per passare all'altro io, il vero io: che era uno stronzo detestabile e completamente illuso. Era come se trovarsi in sintonia con la vita fosse qualcosa di accidentale che poteva capitare, certe volte, ai giovani fortunati; mentre, per il resto, era una cosa con la quale gli esseri umani non riuscivano a rapportarsi. Che strano. E che strano pensare che lui, che era sempre stato felice di far parte della schiera infinita dei "normali", poteva, in realta', costituire l'anormalita', essere estraneo alla vita reale proprio a causa delle sue radici, cosi' grosse.

(pag. 355-356)

"Pastorale Americana" di Philip Roth

L’arrugginita scala antincendio del palazzo sarebbe venuta giù, si sarebbe staccata dagli ormeggi e sarebbe piombata nella strada, se qualcuno vi avesse messo un piede sopra: una scala di sicurezza la cui funzione non consisteva nel salvare delle vite in caso d’incendio, ma nello stare là appesa, inutilmente a testimoniare l’immensa solitudine della vita degli esseri umani. Per lui non aveva altro significato: nessun altro significato avrebbe potuto avrebbe potuto essere attribuito a quell’edificio. Sì, siamo soli, profondamente soli, e in serbo per noi, sempre, c’è uno strato di solitudine ancora più profondo. Non c’è nulla che possiamo fare per liberarcene. No, la solitudine non dovrebbe stupirci, per sorprendente che possa essere farne l’esperienza. Puoi cercare di tirar fuori tutto quello che hai dentro, ma allora non sarai altro che questo: vuoto e solo anziché pieno e solo. Stupida, stupida Merry, più stupida persino del tuo stupido padre: nemmeno far saltare in aria le case serve a qualcosa. Sei solo se ci sono delle case e sei solo se non ci sono. Come puoi protestare contro la solitudine? Tutte le campagne di attentati della storia non l’hanno nemmeno scalfita. Il più letale degli esplosivi fatti dall’uomo non la può toccare. Temi e rispetta non il comunismo, stupida figlia mia, ma la comune solitudine quotidiana. E il Primo Maggio vai con i tuoi amici a marciare per la sua gloria, la superpotenza delle superpotenze, la forza che domina ogni cosa. Mettici sopra tutto il denaro, puntaci sopra, adorala (inchinati in atto di sottomissione non davanti a Karl Marx, stupida, balbuziente, rabbiosa, figlia mia, non davanti a Ho Chi Minh e Mao Tse Tung), inchinati davanti al gran dio Solitudine!

(pag 244-245)

"Pastorale Americana" di Philip Roth

Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di pseranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d’acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l’affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima di incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l’incontri, la capisci male mentre sei con lei, e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell’incontro e scopri ancora un volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del signignificato che secondo noi dovrebbe avere e che assume un significato tanto grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono tutti andarsene e chiuderse la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando dei personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati. 

(pp. 40-41)