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Benaltrismo

Ho un’amica molto coraggiosa che oggi affronta i suoi problemi di petto. Io in fondo me ne sono andata 10 anni fa e, ogni volta che ritorno, dopo 2 giorni me ne vado di nuovo… facile stare bene così! Ti becchi sempre e solo l’entusiasmo degli arrivi e delle partenze, senza mai vedere la fase discendente! Lei è 10 anni che rimane, lei rimane per tutti, e tutti quando vanno e poi tornano sanno che in lei c’è il buon vecchio porto sicuro. Chi di noi non si è rifugiato nella sua cantina almeno una volta? Siamo tutti scappati dai morosi, dagli amanti, dai nostri genitori, dalle nostre responsabilità, dagli esami, dallo scoutismo, dal brutto mondo che c’è lì fuori in quella cantina piena di cocacola serietelevisive porteaperte. Lei ci ha ascoltato, ci ha fatto cambiare argomento, ci ha preparato la colazione, ci ha non-giudicato, ci ha dato la forza per tornare nel suddetto brutto mondo. E non sempre siamo tornati indietro a dire grazie scusa ti amo ti voglio bene. Ma di lei chi si prenderà cura? Lei stessa. Una grande intenzione, un grande inizio. Quindi mi chiedo: io ho problemi da affrontare di petto? Ho bisogno di scavarmi dentro e soffrire e risolvere? Macchè, io sono risolta! Una roccia! A me gli africanoni mi fanno un baffo! Aver paura di incrociarli sulla strada per il bagno? Sognarseli di notte? Non riuscire ad ascoltare le loro storie di miseria e deprivazione? Puah, robe da dilettanti! Io sono una roccia! La verità è a che a me la vita non mi ha ancora neanche sfiorato. Vivo beata, immersa come sono nella mia vita coniugale fatta di serate al cinema talami nuziali grandi viaggi autarchia affettiva, e considero gigantesche cadute di cielo un computer spaccato o un cellulare comprato un attimo prima che me ne arrivassero gratis altri due… ma in effetti i problemi della vita sono ben altri. E quando capiteranno non si sa come reagirò. Non sono pronta alla morte, alla malattia, alla mancanza, alle ferite, all’abbandono. A TE LA VITA NON TI HA ANCORA NEANCHE SFIORATO! Quindi per-ora sto al fianco della mia amica coraggiosa, sperando di essere in grado di avere questo coraggio quando sarà il mio turno.

Tentò di parlare ma gli mancò il fiato
la triste prigione lo aveva fiaccato,
scrisse: “Son vittima di una magia,
da questa torre non potrò mai andar via”.

La madre rispose: “Ma che prigioniero,
via dalla testa questo sciocco pensiero,
non sei Vincent Price, sei Vincent Malloy,
dovrai pur comprenderlo, no?, prima o poi!

Non sei né pazzo né tormentato,
la vita non ti ha ancora neanche sfiorato,
sei solo un bambino di sette anni
vai a divertirti e abbandona gli affanni!”.

“Città aperta” di Teju Cole

Poi scrivo lunghe lettere a mio fratello minore, che ha vent’anni. Questo è uno degli scopi dei miei studi: non dico ai miei fratelli più giovani cosa devono pensare, ma voglio aiutarli a imparare a pensare; voglio che sappiano che possono valutare le situazioni e arrivare a una conclusione.

Salvare d’istinto un bambino, un po’ di felicità; qualche ora con i ruandesi, quelli che erano sopravvissuti, un po’ di tristezza: l’idea del nostro anonimato finale, un altro po’ di tristezza, il desiderio sessuale soddisfatto senza complicazioni, un altro po’ di felicità, e avanti così, un pensiero dopo l’altro. La condizione umana mi pareva meschina, l’essere soggetti a quella lotta costante per modulare l’ambiente interiore, sballottati come nuvole.

Questa storia, narrata infinite volte, ha conservato il potere di accelerare il battito del cuore: si spera sempre, segretamente, che le cose finiscano in modo diverso e che la cronaca di quegli anni mostri che i torti furono in realtà su una scala più simile al resto della stria umana. L’enormità di quello che invece accadde davvero, a prescindere da quanto sia ormai familiare, a prescindere da quanto spesso sia ormai reiterato, lascia sempre senza parole.

Quell’improvvisa debolezza mentale, pensai (mentre la macchina mi chiedeva se volevo provarci ancora – a inserire il pin ndr – e io sbagliavo di nuovo), era una versione semplificata del sé, un’area di smarrimento che aveva sostituito qualcosa di più stabile. Anche rompersi una gamba aveva lo stesso effetto: all’improvviso ci si sentiva sminuiti, e si camminava come una comprensione incompleta del significato di camminare.

L’ITALIA PEGGIORE

Senza macchine che vadano a fuoco
Ma anche tu eri ubriaca quando mi dicevi quella volta:  “Se non la posso ballare allora no, non è la rivolta”.
Per questo la storia la si insegna con i piedi che loro di ballare san qual’è la buona volta.

C’eravamo tanto sbagliati
Fanculo (…) a chi le ha viste tutte e deve raccontartele assolutamente, a chi vuole scherzare su tutti e si prende sempre sul serio.

Il sulografo e la principessa ballerina
La democrazia è questa cosa qui, non un’altra ideale, e ha rotto i coglioni.
Ti ho toccato il culo e abbiamo riso; il tuo culo frega la morte al tavolo in trattative con la felicità.

Linea 30

http://statosociale.tumblr.com/

“The Corrections” by Jonathan Franzen

Once, when he was a boy, there was a total eclipse of the sun in the Midwest, and a girl in one of the poky towns across the river from St. Jude had sat outside and, in defiance of myriad warnings, studied the dwindling crescent of the sun until her retinas combusted. “It didn’t hurt at all,” the blinded girl had told the St. Jude Chronicle. “It felt like nothing.”

Un tranquillo giorno di regime

Se vedi una persona che non si rassegna alle cerimonie dei tempi, che prezioso e invisibile aiuta gli altri anche se questo non verrà raccontato in pubbliche manifestazioni, che non percorre i campi di battaglia sul bianco cavallo dell’indignazione, ma con pietà e vergogna cammina tra i feriti, ecco uno stregone.

No, non sono io, non sono così sicura di me (o al contrario così boriosa) da poter affermare di essere davvero così. Conosco persone che sono così – curiosamente la maggior parte di loro si chiama Andrea – e che sono certa che a sentirsi chiamare così neanche si girerebbero, da tanto sono così. Ultimamente, sarà la mia veneranda età, saranno i contesti nuovi e le persone diverse con le quali mi trovo ad avere a che fare, sarà che il mondo vero (brutto mondo?) era là fuori e io finalmente non sono più stata dentro, mi trovo sempre più spesso impelagata in discorsi a proposito delle cerimonie dei tempi. Mi sento dire che un paio di tacchi è fondamentale nel guardaroba di una donna, mi sento dire che truccarsi e smaltarsi è fondamentale per la bellezza di una donna, mi sento dire che vestirsi “decentemente” è fondamentale per la credibilità di una donna (o di una persona, più in generale). Eppure ho un preciso ricordo della bocca storta di mia madre quando mio padre chiese il tappo della bottiglia bevuta a metà alla sagra della Madonna della Castagna e me la diede perché la potessimo portare via e finire noi. Ma dove andate a berlo? Dove capita… Avevo 23 anni allora e mio padre 51 e stavamo facendo esattamente ciò che ci stava passando per la testa. Mia madre storceva la bocca e ci definiva stupidi, indecenti, adolescenziali. Ma che vuol dire adolescente? Che vuol dire il tempo passa? Che vuol dire quarant’anni o centoventi (e poi perché non possiamo più giocare e neanche farci male, perché tutto deve andare sempre com’è normale). Eppure quello era il mio stesso padre che 5 giorni su 7 esce di casa all’alba incravattato e con il completo. E allora non ci può essere un’unica via: ho ragione di credere che ci siano più alternative! Comunque, ciò che voglio contestare io in questo caso, non è la nascita e/o l’uso di “divise lavorative”, che di volta in volta possono essere giacca e cravatta per il manager o pantaloni neri per la commessa o vestiti “decenti” per la correttrice di bozza; questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta. No, quello che io contesto è lo stabilire che siano queste divise la cartina al tornasole della decenza o della credibilità o, addirittura, della bellezza. E ciò che mi preoccupa è che quelli che vengono dopo di noi, che di noi si fidano e che ci prendono a modello, possano imparare da noi che tutto deve andare sempre com’è normale e che questa suddetta normalità risieda in giacche, cravatte, trucco e scarpe col tacco. Inoltre quello che voglio sempre più scoprire e sottolineare è che vale anche il contrario: non è detto che chi usa giacche, cravatte, trucco e scarpe col tacco sia appiattito e comune e banale.
In tempi non sospetti sono stata classificata come spregiudicata: mai ciò che voleva essere un attacco, forse un insulto, risuonò alle mie orecchie con un suono più dolce. E poi ancora anormale, manichea, adolescenziale, bastiancontraria. Alla tenera età di 27 anni io ragiono ancora con la mia testa e non secondo gli schemi precostituiti che alcune persone pensano essere alla base della moderna società occidentale. E un giorno diventerò una stregona.

Quando non c’è più niente da imparare, vai via dalla scuola.
Quando non c’è più nulla da sentire, non ascoltare più.
Se ti dicono: è troppo facile starne fuori, vuole dire che loro ci sono dentro fino al collo.
Vai lontano, con un passo solo.

Paura di volare (di Erica Jong)

Ho l’abitudine di pensare che l’unico modo per proteggere me stessa dal giudizio degli altri sia quello di giudicarmi da sola e nel modo più spietato possibile.

Se fossi riuscita a distinguere il bene dal male,forse avrei potuto scegliere, ma mi sentivo più confusa e frustrata che mai.

Ero un po’ spaventata dalla mia promiscuità, sgomenta per il fatto che riuscivo a passare da un uomo all’altro e sentirmi felice, intossicata. Sapevo che avrei dovuto pagare per tutto questo più tardi, con gli abissi di colpa e infelicità nei quali riuscivo sempre a piombare senza il minimo sforzo. Ma in quel momento ero felice. Per la prima volta mi sentivo apprezzata come meritavo. Forse è vero che due uomini insieme riescono a formare una persona completa.

Diventavo servile, nauseante, dolciastra: assumevo tutti quegli atteggiamenti pieni di falsità che di solito vengono contrabbandati con il nome di femminilità.

Era una voce? O il pulsare del sangue? Qualcosa di ancora più primitivo del linguaggio. Una specie di pulsare delle viscere che avevo definito “fame d’amore”. Era come se lo stomaco pensasse di essere cuore. E non importava quanto lo riempissi… di uomini, di libri, di cibo, di biscotti allo zenzero a forma di uomo, di poesie a forma di uomo e di uomini a forma di poesie… rifiutava di calmarsi. Senza fondo… ecco com’era. Ninfomania del cervello. Denutrizione del cuore.

Il mio cuore (e la mia figa) sono in vendita in cambio di una frase concisa ed espressiva, di una buona battuta, di due versi deliziosi o di un paragone sensazionale.

Dio… non c’è niente al mondo come essere palpate dappertutto da una dozzina di donne libanesi di centocinquanta chili dotate di magnifici baffi. Io ero terrorizzata.

Pagherei qualunque cifra in questo momento per essere a casa a ricordare tranquillamente tutta questa faccenda. è la parte che mi piace di più, in definitiva. Perché ingannare me stessa? Non sono un’esistenzialista. Niente è veramente reale per me finché lo metto per iscritto… riveduto e abbellito. Aspetto sempre che le cose finiscano per poter correre a casa e metterle sulla carta.

Racconti Romani (di Alberto Moravia)

[…] e mi dicevo che non valeva la pena di vivere se ogni tanto non ci si fermava e non si pensava che stava vivendo. (La rovina dell’umanità)

L’allegria ci veniva anche dal fatto che era una giornata proprio bella, con qualche nuvola bianca qua e là per il cielo pulito, tanto da ricordare che si era in primavera, e tutta la campagna verde, di quel verde di maggio, tenero, gonfio, come spumoso che fa pensare al latte appena munto e quasi quasi verrebbe voglia di essere mucca soltanto per provare il piacere di metterci dentro la faccia. (La gita)