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INVICTUS – in Memoria di Adama Kanoute

IMG_6598Questo ragazzo aveva 31 anni quando lo scorso 7 maggio si è suicidato in via Ferrante Aporti vicino al numero civico 81. Era un richiedente asilo proveniente dal Mali, chissà da quale fame (di cibo di futuro di lavoro di alternative di pace) fuggiva, ma non importa perché la stampa non gli dà neanche un nome o un volto – oggi neanche la benché minima attenzione.

ADAMA KANOUTE, noi non ti dimentichiamo.

#ricordareisopravvissuti
#sopravviverealricordo

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The look of silence (di Joshua Oppenheimer)

Un film documentario indonesiano (in lingua originale – bellissima – e sottotitolato) che partendo da una strage a fondo labilmente politico accaduta in Indonesia negli anni Sessanta riesce a raccontare l’Indonesia di oggi, quella pubblica/politica e quella privata/politica. Il fratello di un uomo ucciso durante quella campagna anti-comunista controlla la vista degli assassini di suo fratello e fa domande su quello che hanno fatto. La metafora è lì a portata di mano, eppure non scontata. Gli assassini sono ormai vecchi – qualcuno è anche morto e in quel caso parlano le mogli o i figli – ma le reazioni sono agghiaccianti e lasciano senza parole (a volte nel bene, più spesso nel male).
La fotografia è bellissima – l’Indonesia è bellissima – e tutto è narrato ma mai mostrato (e tanto basta).

La madre del narratore ha delle mani bellissime e le rughe del suo viso sottendono il sole indonesiano senza che questo venga mai mostrato durante tutta la durata del film.

Ammette tranquillamente di aver messo al mondo il suo secondo figlio per sopperire alla mancanza del primo, ringrazia dio di aver risposto alle sue preghiere e di averla consolata con la nascita di un figlio così simile a quello precedente. Il rapporto madre-figlio è intenso e sincero e lei gli consiglia cautela (un bastone avvolto in un giornale in caso gli intervistati non reagissero bene) e calma (e lui non la perde mai anche quando insiste con domande dirette e chiare sulle motivazioni di tanta crudeltà e di tanta gloria) come le si consiglierebbe a un compagno di resistenza armata più che a un figlio. Il suono della lingua indonesiana (in alcune parole e alcuni andamenti della frase così simile al giapponese) fa sembrare le conversazioni fra la madre e un padre troppo vecchio e ormai assente una specie di nenia, un racconto da narratori girovaghi tenutari della tradizione orale.

Terribile pensare che di questa Storia, così vicina nel tempo ma così lontana nella quotidianità, non rimanga molto più che un tramandarsi di bocca in bocca di ciò che successe realmente, perché i libri di Storia ufficiali fanno sì che gli insegnanti raccontino alle loro classi una favoletta da regime autoritario. E che gli alunni – nipoti e discendenti proprio di coloro che vennero violentati, sterminati, nascosti – debbano quindi sorbirsi l’imbarazzante storiella sugli scambi di coppie e la miscredenza dei loro zii e dei loro nonni.

La Verità si merita un film come questo.


Joshua Oppenheimer, dall’Indonesia al Lido di Venezia.
Quattordici anni per dare un volto al silenzio

(http://thelookofsilence.com/ – © Joshua Oppenheimer, Byrge Sørensen, Final Cut for Real)

Non è successo nulla (di Concita De Gregorio)

(dal sito de Il secolo XIX)

QUINDI non è stato nessuno. Quindi, come dice sua madre guardandoti diritto negli occhi, “visto che non è successo niente stasera torniamo a casa e lo troviamo vivo che ci aspetta”.

Perché la questione è molto semplice, ed è tutta qui. Non c’è da ripercorrere le indagini, sostituirsi a chi le ha fatte, commentare la sentenza provare a indovinarne le ragioni. Meno, molto meno. Quello che rende la storia di Stefano Cucchi la storia di tutti è nelle semplicissime parole di sua madre: c’era un giovane uomo di 31 anni e non c’è più, era nelle mani dei custodi della Legge lo hanno ammazzato ma non è stato nessuno dunque non è successo niente.

Vada a casa signora, ci dispiace. Suo figlio è morto mentre era nelle strutture dello Stato, una caserma poi un’altra, una cella di sicurezza poi un’altra, un ospedale poi un altro. È stato picchiato, è vero. Aveva le vertebre rotte gli occhi tumefatti: lo sappiamo, le perizie lo confermano, non potremmo d’altra parte certo negarlo. Le sue foto avete deciso un giorno di renderle pubbliche e da allora le vediamo ogni volta, anche oggi qui, ingigantite, in tribunale. Un ragazzo picchiato a morte. Ma chi sia stato, tra le decine e decine di carabinieri e agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici infermieri e portantini che in quei sei giorni hanno disposto del suo corpo noi non lo sappiamo. Dalle carte non risulta. Nessuno, diremmo. Anzi lo diciamo: nessuno.

Dunque vada a casa, è andata così. Dimentichi, si dia pace. Questo è un esercizio più facile per chi voglia provare a mettersi nei panni: nessuna madre, né padre, né sorella può dimenticare né darsi pace del fatto che un figlio debole, infragilito dalla droga come migliaia di ragazzi sono, ma deciso a uscirne, un figlio amato, smarrito, accudito possa essere arrestato una sera al parco con 20 grammi di hashish, portato in caserma e restituito cadavere una settimana dopo. È anche difficile sopportare in aula l’esultanza e il giubilo dei medici e degli infermieri assolti, perché comunque quel ragazzo stava male, è morto che pesava 37 chili e quando è entrato ne pesava venti di più. Sembra impossibile poter perdere 20 chili in sei giorni ma se non mangi e non bevi perché pretendi un legale che non ti danno, se hai un problema al cuore e vomiti per le botte forse succede, di fatto è successo e qualcuno deve aiutarti a restare in vita. Uno a caso, dei cento che sono passati davanti ai tuoi occhi in quei giorni e hanno richiuso la cella. È difficile per un padre leggere il comunicato di polizia Sap che con soddisfazione dice “se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze senza che altri, medici o poliziotti, paghino per colpe non proprie”. Perché, ricorda sommessamente Giovanni Cucchi, “ho rispetto per tutti, ma vorrei precisare che chi ha perso il figlio siamo noi”.

Delle immagini di ieri, sentenza di assoluzione, restano le grida di esultanza degli imputati le lacrime dei familiari e i volti chiusi dei magistrati tra cui molte donne, volti rigidi. Dicono, da palazzo di giustizia, che le prove fossero “scivolose”, le perizie e le consulenze decine, tutte contraddittorie. Dev’essere stato difficile anche per i magistrati, è lecito e necessario supporre, prendere una decisione così. Ci si augura che sia stato un rovello terribile, una via per qualche ragione patita e obbligata. Perché altrimenti diventa difficilissimo per ciascuno di noi continuare ad esercitare con scrupolo e dovizia la strada impopolare e impervia, ma giusta, della responsabilità individuale e personale. Quella che se non paghi una multa ti pignorano casa, ed è giusto, se dimentichi una scadenza sei fuori dalle graduatorie, ed è giusto, se commetti un’imprudenza o violi una norma sei sottoposto a giudizio, ed è naturalmente giusto.

Bisogna però essere certissimi, ma proprio certissimi, che non esista un’omertà di Stato per cui se è chi veste una divisa o ricopre un pubblico ufficio, a violare le norme, nessuno saprà mai come sono andate le cose perché si coprono fra loro nascondendo le carte e le colpe. Bisogna essere sicuri che se sono io ad ammazzare di botte una persona inerme prendo l’ergastolo e che se lo fa un esponente dello Stato in nome del diritto prende l’ergastolo lo stesso. Perché altrimenti, se così non è, viene meno in un luogo remoto e profondissimo il senso del rispetto delle regole e le conseguenze non si possono neppure immaginare. Altrimenti vale la legge del più forte e non si sa domani in quale terra di nessuno ci potremmo svegliare, tutti e ciascuno di noi, in quale selva che ci conduce dove. Disorienta e mina le fondamenta del vivere in comunità, una sentenza così. Servirebbe un gesto forte e simbolico, comprensibile a tutti. Ci sono giorni che chiamano all’appello l’umanità e l’intelligenza di chi, sovrano, incarna le istituzioni. Questo è uno.

(da Repubblica.it – 01/11/2014)

who are you proud to love?


In seguito alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che di fatto ha giudicato incostituzionale il Defense of Marriage Act (DOMA), una legge federale molto discussa e contestata sui matrimoni tra persone dello stesso sesso, il presidente Barack Obama ha diffuso un proprio comunicato, accogliendo con favore la storica decisione dei giudici.

Mi congratulo per la decisione assunta dalla Corte Suprema di abrogare il Defense of Marriage Act (DOMA). Si trattava di una discriminazione racchiusa nella legge. Trattava le coppie di gay e lesbiche come una classe di persone separata e inferiore. La Corte Suprema l’ha definita sbagliata, e ora il nostro è un paese migliore. Siamo quelli che hanno dichiarato di essere stati creati tutti uguali, e l’amore che dedichiamo al prossimo deve esserlo altrettanto.

Questa decisione è una vittoria per le coppie che hanno combattuto a lungo per essere trattate allo stesso modo dalla legge; per i bambini i cui matrimoni dei genitori saranno ora riconosciuti come giusti e legittimi; per le famiglie che, infine, riceveranno il rispetto e la protezione che meritano; e per gli amici e i sostenitori che non hanno voluto altro che poter vedere le persone cui vogliono bene trattate equamente e che si sono dati da fare per convincere il loro paese della necessità di cambiare in meglio.

La decisione di oggi è quindi benvenuta, e ho dato indicazioni al Procuratore generale di lavorare con gli altri componenti del mio governo per rivedere tutti gli statuti federali per fare in modo che quanto deciso, comprese le implicazioni per quanto riguarda i benefici e i doveri a livello federale, sia osservato facilmente e velocemente.

Su una questione sensibile come questa, avendo ben presente che gli statunitensi hanno un’ampia serie di opinioni basate profondamente su ciò in cui credono, è fondamentale mantenere la libertà religiosa nel nostro paese. Come le istituzioni religiose definiscono e vedono il matrimonio è sempre stata materia che compete direttamente a loro. Niente su questa decisione – che si applica solo ai matrimoni civili – cambia questo fatto.

Le leggi del nostro paese vanno verso la verità fondamentale che milioni di statunitensi hanno nei loro cuori: quando tutti gli statunitensi sono trattati equamente, a prescindere dalla persona che amano o che li ama, siamo tutti più liberi.

Il Fronte dell’Uomo Qualunque è il primo partito di questo paese.

RIT: Io diventerò qualcuno, non studierò non leggerò, a tutti voi dirò di no.
Ecco perché diventerò qualcuno.
Se vuoi parlare un po’ con me ti devo addare al mio myspace.

Nel dopoguerra non c’era chi urlava nei comizi più di cherokee.
Non c’erano TV colme di Nembo Kid ne radio attive come nubi a Chernobyl.
C’era l’uomo qualunque, sostenuto dal Fronte dell’Uomo Qualunque.
Nella schiena dei partiti affondo le unghie: “Io non sono di destra nè di sinistra, sono un uomo qualunque!
E lo stato è demagogo, nel sistema bipolare non mi ci ritrovo..”
Ooh, ferma tutto!
Devo aver avuto un herpes, dato che questo sfogo non mi è nuovo.
Vivo decenni dopo nello stesso clima che su questo fuoco getta più benzina
ma non c’è più l’uomo qualunque, tutti sono qualcuno, tutti sono in vetrina.

RIT: Io diventerò qualcuno, non studierò non leggerò, a tutti voi dirò di no.
Ecco perché diventerò qualcuno.
Se vuoi parlare un po’ con me ti devo addare al mio myspace.

Il qualcunista milita in una banda che prende piede se la prendi sotto gamba.
Gode come te quando ti stendi sotto Ramba, ma è talmente finto che sembra un ologramma.
Partecipa al raduno, di quelli che gridano “Italia uno!” poco prima di un programma.
Scrive recensioni di cd nel web e non distingue Zenyatta Mondatta da Ummagumma.
E’ una farsa, ha una cultura scarsa, ma non gli basta il ruolo della comparsa.
Prima parla per bocca di Giorgio Bocca e poi la pensa come Giampaolo Pensa.
Lascia nei forum commenti di boria, ma si.. sono piccoli commenti di gloria.
Porta avanti una staffetta scorretta: non passa il testimone ma passa a testimonial.

RIT: Io diventerò qualcuno, non studierò non leggerò, a tutti voi dirò di no.
Ecco perché diventerò qualcuno.
Se vuoi parlare un po’ con me ti devo addare al mio myspace.

“Il Fronte dell’Uomo Qualunque è il primo partito di questo paese.
Grazie e arrivederci.”
Bene, adesso mister e miss faranno del parlamento la Diaz del Blitz.
Non distinguono il Foglio dal Manifesto, del resto io non distinguo Libero da Gin Fizz.
La democrazia fa la fine del vip che ritrova H.P sull’uscio dell’hotel Ritz.
E siamo tutti nelle mani di chi? Di questi che per diventare qualcuno cambiano nick?
Si, il Fronte dell’Uomo Qualcuno ha voti al cubo,
mamma che dolore al culo, lo appuro, se questo è uno scherzo manca il sens of humor.
Uuh che manrovescio!
Stiamo seppellendo nell’Endemol generation.
Devo aspettare di perdere il mio diritto di voto per guadagnare il diritto alla nomination?

RIT: Io diventerò qualcuno, non studierò non leggerò, a tutti voi dirò di no.
Ecco perché diventerò qualcuno.
Se vuoi parlare un po’ con me ti devo addare al mio myspace.