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Lo cunto de li cunti

Mi è piaciuto questo film. Potessi togliere le uniche 2 scene di sesso esplicito che ci sono, lo farei vedere a un bambino – perché è un film dal quale si può imparare molto.
La solita vecchia storia della vanità che ti porta alla morte – È proprio vero! – è stata in effetti la scena più pulp e cruenta di tutto il film (forse la Salma Hayek che si mangia il cuore di drago era peggio, ma averla vista più volte nel trailer più volte ha evidentemente fatto passare la paura) però ci stava tutta. Non mettere quella scena sarebbe stato un inutile pararsi gli occhi, come quelli che non vogliono vedere le scene dei morti in guerra al telegiornale – senza considerare che per lo meno questa era tutta una sceneggiata, mentre i morti delle guerre sono veri e meritano considerazione.
La vecchia che, allattata dalla strega, si risveglia ed è Stacy Martin è stupefacente. Stacy Martin è stupefacente! e il suo sguardo ha sempre quella pudica innocenza che le dà sempre un’apparenza così verginale da lasciarti di stucco in ogni scena di sesso che interpreta, da quellle pluriorgasmiche di Nymphomanic a quella casta e ricoperta di capelli rossi ne Il Racconto dei Racconti.
La mia scena preferita è quella finale in cui la principessa Viola torna al suo reame con la faccia e il vestito imbrattato di sangue: si inizia cercando il principe che ti porterà via dalla tua triste normale vita sul suo famoso cavallo bianco e si finisce prendendo in mano la testa del proprio principe, che nel frattempo si è rivelato per quello che è, ovvero il famoso Orco-Marito-Padrone. La sposa imbrattata di sangue.
O forse quelle 2 scene di sesso bisognerebbe lasciarle e cercare di insegnare che anche quello va bene.

Prima del cinema, nella fila per il bagno, ho osservato esperti di cinema ai quali scappava la pipì parlare dei film che avevano visto durante la precedente ora/settimana/vita scambiarsi idee e opinioni. Che non si conoscessero prima di quella fila per il bagno era chiaro, che forse uno degli uomini sciorinasse le sue fottute idee sulla poetica dei film “orientali” per provarci con una delle donne non era chiaro ma forse stava succedendo – comunque per un attimo tutto ciò mi è anche piaciuto, l’ho trovata una scena degna dell’italianità più profonda, per un attimo ho persino pensato che avrei potuto sbattere in faccia ai miei ragazzi questa scena (non è vero che gli italiani non parlano con gli sconosciuti: osservate!). Poi si è intromessa una signora, che fraintesi di quale film si stesse parlando, e ha detto “non ci si può nascondere dietro un dito”, che in effetti – per lei che aveva visto il film raccontato in questo post – era una frase geniale. Si è creato il gelo, dei 3 tizi che interloquivano l’espertone e la donna si sono zittiti e un terzo uomo ha abbozzato una risposta di circostanza. L’espertone che fino a quel momento aveva parlato tanto, tronfio della sua cultura cinematografica come un pavone, ha ignorato la signora e ha detto “al massimo per questo film si può dire che niente è come sembra”, al ché la signora ha esplicitato che evidentemente stavano parlando di film diversi perché parlava de Il racconto dei racconti….. Nessuno degli altri 3 ha detto di che film stesse parlando, la fila per il bagno è tornata a essere una fila di persone che aspettavano per andare a fare la pipì e tutti sono tornati in silenzio. Meglio che io non abbia parlato ai miei ragazzi di questa scena prima della sua fine, mi avrebbero solo riso dietro. A ragione, per altro.

Nymphomaniac vol. I & II (di Lars Von Trier)

In breve, questo film racconta di come gli essere umani siano tristemente condannati a colmare le loro solitudini e non c’è nulla che ci si possa fare a riguardo, non c’è pena che possa espiare la loro colpa, il loro senso di colpa. Il finale è tutto un montare di aspettativa e suspense: lei dice una serie di cose illuminanti, proprio da luce in fondo al tunnel, sembra si possa davvero dire tutto è bene quel che finisce “bene”… e invece Kusturica e chissà quanti altri prima di lui ci insegnano che se a un certo appare una pistola qualcuno dovrà poi usarla! e allora ti aspetti di tutto: che lui uccida lei, che lui ci si suicidi e chissà cos’altro (in ogni caso ci si aspetta del sangue). Effettivamente quello che sembra l’happy ending, precede di poco il vero finale e quindi anche stavolta Kusturica – o chi per lui – non mente (anche se di sangue non se ne vedrà).
La morale è che l’umanità è potenzialmente sempre una merda, specie se c’è il sesso di mezzo, e che nulla ma proprio nulla (neanche la cosa più importante, neanche la cosa più bisognosa di aiuto, neanche  un figlio) può frapporsi fra l’essere umano e la sua natura.

Forse l’unica differenza fra me e gli altri è che io ho preteso di più dal tramonto. Colori più spettacolari quando il sole arriva all’orizzonte. Forse è questo il mio unico peccato.

Le scene di “tortura” sono secondo me le meno cinematografiche (nel senso tradizionale del termine): le meno eccitanti, le più crude, le meno montate, le più Abdellatif Kechiche style (La Vie d’Adèle, Cous Cous and co., tanto per intenderci) ma soprattutto le più catartiche.
Charlotte Gainsbourg è una dea: la trovo bellissima, tanto più bella quanto più struccata e livida, e bravissima, con dei picchi di intensità emotiva espressa “solamente” dalle labbra leggermente aperte. La trovo tristissima e struggente quando è triste e affranta e fa venire voglia di sorridere grandemente nelle pochissima scene in cui sorride brevemente.
L’uso del paesaggio è quasi psicosomatico, c’è abbondanza del famoso paesaggio/stato d’animo, gli alberi sono ripresi come metafora dell’animo umano e ci si lascia sorprendere dalla scoperta di una natura empatica nei nostri confronti come nessun uomo potrà mai essere.
Infine i dettagli tecnici sono molteplici ed esaltati: uno per tutti le scritte in sovrimpressione e la divisione in capitoli con addirittura un titolo per ogni capitolo, che ricordano molto Tarantino (ma forse è solo che io nella mia grande ignoranza non so da chi abbia tratto ispirazione il buon Quentin); e tutto ciò rende il film scorrevole, digeribile, da ipse dixit, molto meno mattone di quanto abbiano dato a intendere.

Stavolta non metto alcun trailer, perché nel trailer ci sono praticamente solo le scene di sesso (che comunque ci sono, abbondanti e ripetute, ma sono appunto così tante ed eterogenee che quelle 6/7 mostrate nel trailer sono solo uno specchietto per le allodole) e credo attiri/inganni lo spettatore, e io voglio dirvi di andare a vederlo e basta – non voglio attirarvi con l’inganno.

 

A volte occorre sbattere la testa contro un albero per capire ciò che si deve fare, e che il segreto delle cose è privo di significato. Non so perché, ma mi venne in mente che la mia insegnante di inglese al ginnasio ci parlò di un russo che aveva detto che se nella prima metà di un libro compare un pistola, si può star certi che nella seconda sparerà.
(Arizona Dream)

Pride (di Matthew Warchus)

Qualcuno mi ha fatto un regalo. Mi è stata regalata una storia.
Mi è stato possibile essere trasportata a Londra, e poi da Londra al Galles e poi di nuovo a Londra (innumerevoli volte, a dire la verità – e, a dire il vero, me li immaginavo più lontani); ero così trasportata che alla fine mi sono commossa, ma era come commuoversi per qualcosa che era successo a me o a un amico. Ho scoperto che a Londra i gay pride si facevano già negli anni 80 (e c’erano già le stesse vecchie coi cartelli sul bruciare all’inferno e cose simili), ho scoperto che la Thatcher non si è occupata solo dei diritti delle lavoratrici (vedi We Want Sex) ma anche della chiusura delle miniere di carbone, ho scoperto che gli insulti che usano contro di te tu devi farli tuoi. Ho desiderato essere al centro della lotta delle Lesbiche e dei Gay che Sostengono i Minatori e viceversa, ho desiderato potermi vestire anche io con i pantaloni e le bretelle come Boy George o avere i capelli di Cyndi Lauper (ma questa non è certo una novità). Mi sono ricordata che l’AIDS è stata una ghigliottina anche sulla società inglese, mi sono ricordata che in Gran Bretagna la strada dell’accettazione è stata lunga e tortuosa ed è iniziata negli anni 80 (e allora ho sinceramente pensato che ci arriveremo anche in Italia, dove la stessa strada l’abbiamo iniziata a percorrere solo negli ultimi dieci anni), mi sono ricordata che sono orgogliosa di essere quello che sono.
Mi sono stati fatti i regali più belli del mondo: la Scoperta, il Desiderio e il Ricordo. Sono fortunata a ricevere regali così.

As we come marching, marching, un-numbered women dead
Go crying through our singing their ancient call for bread,
Small art and love and beauty their trudging spirits knew
Yes, it is bread we. fight for, but we fight for roses, too.

The look of silence (di Joshua Oppenheimer)

Un film documentario indonesiano (in lingua originale – bellissima – e sottotitolato) che partendo da una strage a fondo labilmente politico accaduta in Indonesia negli anni Sessanta riesce a raccontare l’Indonesia di oggi, quella pubblica/politica e quella privata/politica. Il fratello di un uomo ucciso durante quella campagna anti-comunista controlla la vista degli assassini di suo fratello e fa domande su quello che hanno fatto. La metafora è lì a portata di mano, eppure non scontata. Gli assassini sono ormai vecchi – qualcuno è anche morto e in quel caso parlano le mogli o i figli – ma le reazioni sono agghiaccianti e lasciano senza parole (a volte nel bene, più spesso nel male).
La fotografia è bellissima – l’Indonesia è bellissima – e tutto è narrato ma mai mostrato (e tanto basta).

La madre del narratore ha delle mani bellissime e le rughe del suo viso sottendono il sole indonesiano senza che questo venga mai mostrato durante tutta la durata del film.

Ammette tranquillamente di aver messo al mondo il suo secondo figlio per sopperire alla mancanza del primo, ringrazia dio di aver risposto alle sue preghiere e di averla consolata con la nascita di un figlio così simile a quello precedente. Il rapporto madre-figlio è intenso e sincero e lei gli consiglia cautela (un bastone avvolto in un giornale in caso gli intervistati non reagissero bene) e calma (e lui non la perde mai anche quando insiste con domande dirette e chiare sulle motivazioni di tanta crudeltà e di tanta gloria) come le si consiglierebbe a un compagno di resistenza armata più che a un figlio. Il suono della lingua indonesiana (in alcune parole e alcuni andamenti della frase così simile al giapponese) fa sembrare le conversazioni fra la madre e un padre troppo vecchio e ormai assente una specie di nenia, un racconto da narratori girovaghi tenutari della tradizione orale.

Terribile pensare che di questa Storia, così vicina nel tempo ma così lontana nella quotidianità, non rimanga molto più che un tramandarsi di bocca in bocca di ciò che successe realmente, perché i libri di Storia ufficiali fanno sì che gli insegnanti raccontino alle loro classi una favoletta da regime autoritario. E che gli alunni – nipoti e discendenti proprio di coloro che vennero violentati, sterminati, nascosti – debbano quindi sorbirsi l’imbarazzante storiella sugli scambi di coppie e la miscredenza dei loro zii e dei loro nonni.

La Verità si merita un film come questo.


Joshua Oppenheimer, dall’Indonesia al Lido di Venezia.
Quattordici anni per dare un volto al silenzio

(http://thelookofsilence.com/ – © Joshua Oppenheimer, Byrge Sørensen, Final Cut for Real)

Tutto imparammo dell’amore.

Sono giorni, settimane quasi, che mi si parano davanti parecchie troppe domande (verità?) sull’amore, la maggior parte delle quali in forma di film. Vedo film che mi illuminano, mi fanno piangere, mi fanno voltare dall’altra parte, mi ispirano, mi accompagnano. Persino nei loro titoli di coda. Parliamo del famigerato Amore con la A maiuscola, quello che guida anime e corpi e soprattutto crea, piuttosto che riprodurre. Mi sono trovata davanti ad amori esplicitamente creativi, che fanno emergere la bellezza e la vera essenza dello spirito umano, appunto senza necessariamente riprodursi – nel senso stretto della riproduzione sessuata.

In La vie d’Adèle mi sono trovata a voltarmi dall’altra parte dopo 10 minuti di sesso senza colonna sonora senza luci attenuate senza pause; certamente non il sesso al quale siamo abituati (ci hanno abituati) nel cinema, specialmente quello hollywoodiano. Continuo (continuiamo) a ripetere che era come assistere a qualcosa al quale non avremmo dovuto assistere, come essere nell’intimità di qualcuno che aveva chiuso la porta a chiave per non essere disturbato. Le carni arrossate – che fanno ridacchiare qualcuno, che indignano qualcun altro e che a me fanno distogliere lo sguardo – erano in effetti molto vive, molto veritiere, molto reali. Non le ho sentite mie, non mi sono sentita ritratta io per prima, però mi sono resa conto che avevano colto nel segno proprio nel far ridacchiare, indignare o distogliere: è sesso. Fine. E come qualunque tipo di atto sessuale, ognuno ci ha la reazione che a lui fa il sesso. Non importa che sesso sia… se lesbico o etero o anale o cunnilinguale, non importa perché è sesso e io ci ho quella reazione lì al sesso: mi imbarazzo. Il resto del film è vero, lo sbandiero come noioso e ridondante, ma in effetti era altrettanto realistico: l’amore inizia e poi sboccia violentemente e poi va a sbattere. E l’amore degli altri è fondamentalmente noioso, niente di speciale per noi che non ne siamo parte. L’amore lesbico non è diverso, di questo ne sono certa. Non è eterno o effimero, non è sicuramente vero o sicuramente falso solo in quanto lesbico. Può iniziare e finire come tutti gli altri tipi di amore; e non ve lo devo certo venire a dire io. La mia verità su questo film è, a prescindere da tutto, che fa venire voglia di correre a casa a fare l’amore – o sesso, che dir si voglia.

Poi c’è stato Bright Star, che mi ha fatto fremere e sussultare e venire le lacrime agli occhi e poi le ginocchia molli e il tremore alle mani. Ho avuto tutte le stesse reazioni che aveva Fanny, la protagonista, nel sentire ciò che Keats scriveva per lei a lei con lei. L’amore romantico per eccellenza – quello che mi piace tanto – e la musica così leggera e sottile e di archi e di voci bianche non faceva che sottolineare ancor di più la perfezione che è così intrinseca nell’amore romantico – che mi piace tanto. Come i vestiti di lei, con i colli di tulle rigidi color rosa antico e le cuffiette ricamate e le maniche strette al polso in tante righette. E fare toc-toc attraverso il muro della propria camera perché si sa che è confinante con quella dell’amato e si vogliono mettere le testiere dei letti una in corrispondenza dell’altra. Questo film invece fa venire voglia di accantonare il sesso per sempre e di dedicarsi alla poesia, alla caccia alle farfalle, alle passeggiate nel bosco e agli odori dei fiori selvatici. Di succhiare tutta la vita possibile e immaginabile perché è tutto così rapido e caduco e imprevedibile, che non vale la pena di perdersi in faccende inutili come i Soldi o il Lavoro.

Infine I ponti di Madison County che nella sua infinita banalità strappalacrime, nasconde grandi e intramontabili verità. Questo film parla di un tradimento che non è un tradimento. Parla dei famosi luoghi di confine, i non-luoghi in cui tutto è permesso e tutto può succedere perché tanto si sa che qualunque cosa succeda non andrà mai ad intaccare la Vita Vera, la quotidianità, quella fatta di piccole cose. Quella di Francesca non è rassegnazione, ma è sapere di essersi date e cercate un ruolo nella vita e semplicemente portarlo avanti, non importa come e non importa quello che succede nel frattempo. Per cui se, anni dopo la Scelta, arriva l’uomo dei tuoi sogni che ti mostra quello che non avevi mai visto e che ti chiede di fuggire via con lui e che capisce che tu sei l’unica cosa che lui abbia davvero mai amato tu sai esattamente cosa fare. Ed è doloroso, è faticoso e forse non lo sai ma pure questo è amore. Quello che ci si è scelti prende il sopravvento su quello che il caso ti sbatte addosso. Non è la Verità, una, inconfutabile, inattaccabile e inoppugnabile, ma è una delle tante verità, è la verità quella che ci lascia questo film.

Comizi d’amore (di Pier Paolo Pasolini)

Alberto Moravia: Una credenza che sia stata conquistata con l’uso della ragione e con un esatto esame della realtà è abbastanza elastica per non scandalizzarsi mai. Se invece una credenza è ricevuta senza un’analisi seria delle ragioni per cui è stata ricevuta, accettata per tradizione, per pigrizia, per educazione passiva, è un conformismo.
Pier Paolo Pasolini: Il conformismo, insomma, come testarda incertezza degli incerti?
Alberto Moravia: Per esempio, gli uomini di profondo senso religioso non si scandalizzano mai. Insomma, non credo che Cristo si scandalizzasse mai. Anzi! Non si è mai scandalizzato. Si scandalizzavano i farisei!

intervallo (consigli -non- per gli acquisti)

Brazil (di Terry Gilliam)

Alma: Santo cielo, Sam, perché non fai qualcosa per fermare quei dannati terroristi?
Sam: Perché è ora di pranzo.

(ahsìsì, se il Nostro non ci stupisce non è contento!!
«il miglior film di fantascienza mai realizzato»
«reminded of a Chaplin film, “Modern Times”, and reminded, too, that in Chaplin economy and simplicity were virtues, not the enemy»)