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Non è lecito benedire le unioni gay. Dio benedice l’uomo peccatore, ma non il peccato.

I’m gonna sound mean and bitter ma sinceramente aspettarsi che il Vaticano ci accetti è folle

Però la frase “un prete non può benedire un’unione gay” è ancora più forte dell’essere accettati dal Vaticano, perché invece ci sono comunità cristiane (poche in Italia, moltissime nel mondo) che invece accolgono e benedicono unioni, figli e famiglie lgbt. Il Vaticano sta abbandonando non solo i suoi fedeli ma anche i suoi pastori, ed è uno spreco incredibile. Io capisco dalle parole succitate che chi parla non è un credente, e spero che l*i (e nessun altr*) abbia mai dovuto avere a che fare con familiari o persone care che lo fossero e che avessero difficoltà di accettazione (nonostante non l’amore non sia mai venuto meno). Ma metà della nostra famiglia è cattolica al 100% e abbiamo vissuto anni terribili ed è anche grazie alle parole e al sostegno di sacerdoti e in generale persone di chiesa che hanno bene-detto (ovvero “detto bene del”) la nostra relazione che alcune persone della famiglia sono riuscite a farsene una ragione. Capisco queste persone della mia famiglia? No, ovvio che non le capisco, ho 34 anni e ho vissuto il mio percorso di fede in modo del tutto non convenzionale. Le giustifico? No, mi hanno fatto soffrire e avrei voluto non doverli vedere mai più – ma dopo 11 anni certe cose vanno gestite e prendi tutto l’aiuto possibile.
Anch’io ho pensato a lungo: non mi vuoi come sono? Fottiti, sei tu che ci perdi. E vale per la famiglia, per la Chiesa, per i miei datori di lavoro o clienti. Però il mio pensiero si può fermare solo alla sfera personale. Quando la sfera diventa di coppia (e poi familiare – ma quella parte la analizzo dopo), allora il pensiero deve necessariamente allargarsi. Perché io la religione posso anche avere la voglia e l’abitudine di vivermela in modo più personale e spirituale, ma se per il/la mi* partner invece è un’altra cosa allora non posso far altro che rispettare la sua modalità e fare un passo indietro. Soprattutto perché so che per l*i non è una scelta, perché non decidi sempre da zero come vivere le cose o reagire ad esse, a volte devi osservare il tuo livello di coinvolgimento nelle cose e accettarti per come sei. Quindi se non ti viene da dire “fottiti” non ti ci devi costringere, e ancora più sbagliato sarebbe se ti ci costringessi io che sono l’altra parte della coppia.
Senza considerare che non è sempre facile per tutti decidere di dire “fottiti” alla propria famiglia, perché la ami anche se fa schifo, è bigotta e non ti accetta etc. La paura di rimanere da sol*, di dover cancellare tutto ciò che fino a quel momento ti ha reso te stess* e ti ha fatto forza (perché sì, tutto il resto è sempre andato benissimo) è una brutta bestia, e io capisco che non ci si senta di affrontarla. La verità è che io non ho mai dovuto fronteggiare una famiglia che non mi accettava, quindi sono “teoricamente” pronta a mandare affanculo tutti, ma non devo davvero farlo.
Quindi, se la famiglia del tu* partner è cattolica e ha bisogno di appoggio e sostegno dalla Chiesa per accettare te e il/la tu* partner secondo me non è difficile capire che una persona possa decidere di mettere da parte il risentimento e la voglia di dire “fottiti” perché sa che per il su* partner è importante – lo sa, non deve per forza capirlo/condividerlo ma lo sa e se la metta via perché può investire il tempo in cose più fruttuose del risentimento.
Ecco, quando poi stai facendo tu una famiglia e nella dinamica iniziano ad entrare altre creature, che hanno solo bisogno di essere amate e cresciute nella maggior concordia e diversità possibile (senza pensare alle “colpe” dei genitori e alle stronzate dei nonni), allora secondo me è ancora più importante cercare di essere noi il più accoglienti possibili verso l’incapacità del t*o partner di staccarsi dalla famiglia di origine e verso quella degli altri (il resto della famiglia) di accettarti. Perché sono passati 11 anni e lo sai che non è davvero come all’anno 2 e che in qualche modo le cose si sono evolute, anche perché la gente ha provato a lavorarci su (anche con l’aiuto della suddetta parte della Chiesa che accoglie persone, coppie, famiglie lgbt).
Dopodiché questa è la mia esperienza ed è come la gestisco io oggi. Non è sempre stato così, e l’ho detto anch’io quel “fottiti”, ma quando ho visto che non aiutava nessuno, anzi, creava ancora più sofferenza, ho cercato di capire come essere costruttiva invece che distruttiva. La speranza è che nessuno si trovi mai a dover fronteggiare il muro, enorme all’inizio e poi sempre più piccino (ma mai del tutto scomparso), che ci siamo trovate davanti noi – ma sono sicura che in qualche modo, in tempi più o meno lunghi, è la direzione che ha questo nostro mondo.

A sorta fairytale

Questa è una storia e come tale va raccontata.
Tutto ha inizio grazie a EXPO Milano 2015.
Infatti è grazie all’Expo che il Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci apre le sue stanze e i suoi cortili il 22 aprile fino alle 23. Io vengo portata lì da altri ed è con altri che mi siedo intorno a un bianchissimo bancone da laboratorio (che sembra di essere tornati alle superiori, ma con colori oggetti e spiegazioni da elementari) per fare delle gelatine del colore e della consistenza che vogliamo noi. Davanti a noi si siedono un ragazzo e una ragazza orientali. La ragazza era seduta vicino a me sulla metro – la sua gonnellona a quadri verdi e i suoi mocassini colori cammello con calzini bianchi non potevano non attrarre la mia attenzione. Il ragazzo invece è una ragazza – lo cela bene, ma sotto la camicia a quadri la maglietta bianca è attillata. Colei che dovrebbe spiegarci non solo cosa fare ma anche perché accade (ma non lo farà – si concentra maggiormente sulla famiglia con bambini a carico che occupa il bianchissimo bancone accanto, e forse è giusto così), a loro parla in inglese, e la ragazza-che-non-è-un-ragazzo le dice di essere from China ma poi a noi parla un italiano lento e splendido. Giochiamo assieme con le aromi coloranti sali e sembriamo adolescenti a un campo scout, e siamo già amici di gelatina dopo neanche 5 minuti e io faccio foto a tutti. Poi usciamo dal laboratorio senza neanche salutarci – ma anche questo fa parte dell’adolescenziale gioco di cui sopra e nessuno si offende o stupisce. Mentre gli altri passano nel laboratorio accanto, io proseguo lungo il corridoio, fino ad arrivare a un Dutch Pavillion che spiega come mai l’Olanda è così Olanda e in una stanza tutta verde e di verde illuminata trovo le due amichette di gelatine sedute su dei puff. Entro nella stanza anch’io. Loro si baciano. Silenziosamente mi dileguo sorridendo.

E il pensiero primo e ovvio è quanto io sia felice che Qui lo possano fare. E che lo facciano!! Il secondo pensiero è che Là non lo possono fare, che è terribile disumano vergognoso. Ma il primo pensiero conta di più, no?

Più tardi, raccontando questa storia a Lei, mi luccicavano gli occhi. Ho detto che voglio anch’io uno studente cinese!! Lei mi ha ricordato che la maggioranza dei miei piccoli studenti lo è. Ma loro sono piccoli e non vale! Vuoi mettere la soddisfazione di andare a scrivere su menti già formate, fatte e finite? I miei piccolini in fondo sono facili da plasmare… Li amo tutti lo stesso, ovviamente.

The Fosters

My mums. Wife and wife. I telefilm americani ultimamente sono pieni di termini come questi. Fanno sembrare tutto così maledettamente facile. Negli anni’ 60 non si poteva neanche dire se qualcuno era divorziato, in un matrimonio, e quindi si preferiva non dire nulla in merito. Oggi invece ci sono coppie di donne che hanno figli, dalle loro precedenti relazioni, e figli affidati e/o adottati da loro. Tutto così maledettamente facile. Hanno gli stessi grandi letti pieni di piumini e cuscini (in California farà davvero così freddo di notte!?) delle loro controparti eterosessuali degli altri telefilm e prendono mug di ceramica decorata da grandi dispense di legno scuro in cucine grandi e bellissime col tavolo al centro. Mentre io ho difficoltà a pronunciare le parole “fidanzata” e “lesbica” davanti a mia madre. Desidero liberarmi da quelle catene del linguaggio che non me le fanno pronunciare quanto desidero quelle grandi bellissime cucine col tavolo e la dispensa con le tazze.

La cosa piuttosto ironica è che quando mio padre mi fa domande su me, su noi, sulla vita di coppia, io faccio quella piccola pausa piena di uhm, ecco, allora che farei con qualunque amica mi chiedesse la stessa cosa. Mi sento presa sul serio, penso a quelle domande come domande pensate sensate normali alle quali dare risposte pensate sensate normali. E penso che quasi le potrei usare quelle 2 paroline magiche. Dall’altra parte invece ci sono la supponenza, quella sensazione di momentaneità che mi danno le domande di mia madre… lei non concede alcun futuro a questa relazione, non vede cucine piene di tavoli con seduti figli, lei dice: oggi così domani chissà, magari cambierai idea di nuovo. E attenzione, non dico che lo faccia con cattiveria omofobia o altre brutte cose, ma semplicemente – dopo 3 anni e mezzo – assegna a Lei la stessa importanza che ha assegnato anni addietro agli altri. Non concede nulla a questa relazione, che ovviamente è così diversa dalle precedenti (e mi piace pensare che il motivo non sia il cambiamento del prefisso prima di “-sessuale”, ma chissà se è davvero così). E allora tutta la sicumera ottenuta dalle domande di mio padre se ne va e io sorrido stentatamente allontanando lo sguardo. Le certezze non vacillano, figurarsi; a farlo è la capacità di esprimerle, esibirle, raccontarle come faccio con tutto il resto.

Cambiare argomento è così maledettamente facile.

Tutto imparammo dell’amore.

Sono giorni, settimane quasi, che mi si parano davanti parecchie troppe domande (verità?) sull’amore, la maggior parte delle quali in forma di film. Vedo film che mi illuminano, mi fanno piangere, mi fanno voltare dall’altra parte, mi ispirano, mi accompagnano. Persino nei loro titoli di coda. Parliamo del famigerato Amore con la A maiuscola, quello che guida anime e corpi e soprattutto crea, piuttosto che riprodurre. Mi sono trovata davanti ad amori esplicitamente creativi, che fanno emergere la bellezza e la vera essenza dello spirito umano, appunto senza necessariamente riprodursi – nel senso stretto della riproduzione sessuata.

In La vie d’Adèle mi sono trovata a voltarmi dall’altra parte dopo 10 minuti di sesso senza colonna sonora senza luci attenuate senza pause; certamente non il sesso al quale siamo abituati (ci hanno abituati) nel cinema, specialmente quello hollywoodiano. Continuo (continuiamo) a ripetere che era come assistere a qualcosa al quale non avremmo dovuto assistere, come essere nell’intimità di qualcuno che aveva chiuso la porta a chiave per non essere disturbato. Le carni arrossate – che fanno ridacchiare qualcuno, che indignano qualcun altro e che a me fanno distogliere lo sguardo – erano in effetti molto vive, molto veritiere, molto reali. Non le ho sentite mie, non mi sono sentita ritratta io per prima, però mi sono resa conto che avevano colto nel segno proprio nel far ridacchiare, indignare o distogliere: è sesso. Fine. E come qualunque tipo di atto sessuale, ognuno ci ha la reazione che a lui fa il sesso. Non importa che sesso sia… se lesbico o etero o anale o cunnilinguale, non importa perché è sesso e io ci ho quella reazione lì al sesso: mi imbarazzo. Il resto del film è vero, lo sbandiero come noioso e ridondante, ma in effetti era altrettanto realistico: l’amore inizia e poi sboccia violentemente e poi va a sbattere. E l’amore degli altri è fondamentalmente noioso, niente di speciale per noi che non ne siamo parte. L’amore lesbico non è diverso, di questo ne sono certa. Non è eterno o effimero, non è sicuramente vero o sicuramente falso solo in quanto lesbico. Può iniziare e finire come tutti gli altri tipi di amore; e non ve lo devo certo venire a dire io. La mia verità su questo film è, a prescindere da tutto, che fa venire voglia di correre a casa a fare l’amore – o sesso, che dir si voglia.

Poi c’è stato Bright Star, che mi ha fatto fremere e sussultare e venire le lacrime agli occhi e poi le ginocchia molli e il tremore alle mani. Ho avuto tutte le stesse reazioni che aveva Fanny, la protagonista, nel sentire ciò che Keats scriveva per lei a lei con lei. L’amore romantico per eccellenza – quello che mi piace tanto – e la musica così leggera e sottile e di archi e di voci bianche non faceva che sottolineare ancor di più la perfezione che è così intrinseca nell’amore romantico – che mi piace tanto. Come i vestiti di lei, con i colli di tulle rigidi color rosa antico e le cuffiette ricamate e le maniche strette al polso in tante righette. E fare toc-toc attraverso il muro della propria camera perché si sa che è confinante con quella dell’amato e si vogliono mettere le testiere dei letti una in corrispondenza dell’altra. Questo film invece fa venire voglia di accantonare il sesso per sempre e di dedicarsi alla poesia, alla caccia alle farfalle, alle passeggiate nel bosco e agli odori dei fiori selvatici. Di succhiare tutta la vita possibile e immaginabile perché è tutto così rapido e caduco e imprevedibile, che non vale la pena di perdersi in faccende inutili come i Soldi o il Lavoro.

Infine I ponti di Madison County che nella sua infinita banalità strappalacrime, nasconde grandi e intramontabili verità. Questo film parla di un tradimento che non è un tradimento. Parla dei famosi luoghi di confine, i non-luoghi in cui tutto è permesso e tutto può succedere perché tanto si sa che qualunque cosa succeda non andrà mai ad intaccare la Vita Vera, la quotidianità, quella fatta di piccole cose. Quella di Francesca non è rassegnazione, ma è sapere di essersi date e cercate un ruolo nella vita e semplicemente portarlo avanti, non importa come e non importa quello che succede nel frattempo. Per cui se, anni dopo la Scelta, arriva l’uomo dei tuoi sogni che ti mostra quello che non avevi mai visto e che ti chiede di fuggire via con lui e che capisce che tu sei l’unica cosa che lui abbia davvero mai amato tu sai esattamente cosa fare. Ed è doloroso, è faticoso e forse non lo sai ma pure questo è amore. Quello che ci si è scelti prende il sopravvento su quello che il caso ti sbatte addosso. Non è la Verità, una, inconfutabile, inattaccabile e inoppugnabile, ma è una delle tante verità, è la verità quella che ci lascia questo film.

Dove c’è Barilla c’è casa. Ma non per i gay. (BEA!!)

«Non metterei in una nostra pubblicità una famiglia gay perché noi siamo per la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri». Guido Barilla a La zanzara, su Radio24, 25 settembre 2013.

Pensate se avesse detto: «Non metterei in una nostra pubblicità una famiglia ebrea perché noi siamo per la famiglia cattolica». O ancora: «Non metterei in una nostra pubblicità una famiglia di neri perché noi siamo per la famiglia bianca».

Lascio a voi le considerazioni del caso.

Mi limiterò, per quanto mi riguarda, ad alcune riflessioni.

Innanzi tutto, premesso che mai nessuna associazione gay ha chiesto spot calibrati sulla causa omosessuale, qui non si sta mettendo in discussione la libertà dell’azienda di scegliere il proprio target o le proprie campagne di marketing. È la motivazione addotta che è volutamente escludente.

Rientra, mutatis mutandis, nel Bindi pensiero la cui idea di società è eterocentrica, per cui ai gay è “permesso” vivere in Italia ma senza eguale dignità giuridica. Poi se non ci piace, possiamo sempre cambiar paese.

Adesso, se la pasionaria del Pd aveva torto, e in tanti e tante ci arrabbiammo per le sue parole, anche la dichiarazione del signore del Mulino Bianco è discutibile.

Ancora: il signor Barilla, con quella motivazione, ha offeso i suoi e le sue dipendenti LGBT, che contribuiscono con il loro lavoro a fare dell’azienda una “casa” che li esclude.

Terzo: non si capisce perché le “scelte” delle persone LGBT debbano essere descritte come potenzialmente fastidiose rispetto alla “norma” eterosessuale. Ciò alimenta, per altro, quell’atteggiamento per cui una minoranza per vivere in pace o esser degna deve dimostrare di avere una moralità maggiore rispetto al popolo dei “normali”.

Vi faccio notare, infine, che se fosse successo in America, in signor Barilla avrebbe dovuto chiedere pietà in mondovisione.

Poi ognuno si regoli come vuole, ma riguardo a me, finite le scorte il marchio di cui sopra sparirà dalla mia credenza fino a quando non avrò una buona ragione per cambiare idea.

(CITATO TESTUALMENTE DA: http://elfobruno.wordpress.com/2013/09/26/dove-ce-barilla-ce-casa-ma-non-per-i-gay/; PER CHI VOLESSE APPROFONDIRE IN ALTRE LINGUE: http://www.metronews.fr/info/italie-le-president-de-barilla-conseille-aux-homosexuels-de-manger-d-autres-pates/mmiz!umtyAGnnU87zY/?fb_action_ids=10152281733218298&fb_action_types=og.recommends&fb_source=other_multiline&action_object_map=%5B587311514649067%5D&action_type_map=%5B%22og.recommends%22%5D&action_ref_map)