La sacre du printemps‏

Il mio corpo stamattina mi ha chiesto di fare un pausa, ovvero mi ha – prima gentilmente e poi con irruenza – chiesto di fermarmi e riconsiderare le mie priorità. L’ho assecondato, chiedendomi se sarei riuscita anche oggi a gestire tutte le mie corse e le mie troppe cose da fare; ho anche ringraziato mentalmente la me stessa che aveva deciso di uscire 10 minuti prima perché se no non avrei avuto quei tempi per sedermi nella penombra del salotto a riconsiderare le mie priorità. La lentezza è un valore? Perché io vado predicando “piano piano” a tutti i miei ragazzi, sottolineando sempre che hanno tanto tempo davanti e tutta la calma del mondo per imparare questa lingua così astrusa e piena di dettagli imprescindibili. Però poi, come sempre fa chi predica bene e male razzola, io corro e pretendo di essere in più posti contemporaneamente a fare tutto tutto bene. E me la prendo con gli altri se non colgono/apprezzano i miei sforzi e me la prendo con me stessa quando mi dimentico quella particolare attività che sarebbe stato cosi utile fare e così saggio preparare ma che proprio mi è sfuggita, annegata nelle altre mille cose utili e sagge. La primavera è scoppiata all’improvviso, da un giorno all’altro la mia giacca è passata dall’essere troppo leggera all’essere troppo pesante (ma lungi da me il pensiero di volermi lamentare!) e sembra che il vento non abbia mai spazzato il cielo così bene come stamattina! Ieri sera abbiamo deciso e prenotato la Scozia e io sono combattuta fra l’impazienza del voler decidere che scarpe portarsi e l’ansia dei rapporti umani che riporta brevemente al viaggio in Sicilia, alla noia non programmata di essersi trascinati dietro un’imprevedibile rottura di palle e alla tristezza di non poter condividere neanche il ricordo con il quarto uomo. Ma è solo che io, nella mia incapacità di esser lenta, non riesco a dare tempo al tempo e vorrei che agosto fosse domani. C’è una sola cosa che non mi pesa aspettare e che anzi mi crea un grandissimo piacere: il ritmo ciclico della frutta e della verdura. È per me un tale piacere attendere sia l’estate di pesche e ciliege che l’inverno di arance e broccoli che non so scegliere e quindi sempre non vedo l’ora e mai non vedo l’ora che sia ciò che non è e non sia ciò che è.

 


Fantasia – Le Sacre du Printemps (Partie 1) di disney-world81


Fantasia – Le Sacre du Printemps (Partie 2) di disney-world81

Nymphomaniac vol. I & II (di Lars Von Trier)

In breve, questo film racconta di come gli essere umani siano tristemente condannati a colmare le loro solitudini e non c’è nulla che ci si possa fare a riguardo, non c’è pena che possa espiare la loro colpa, il loro senso di colpa. Il finale è tutto un montare di aspettativa e suspense: lei dice una serie di cose illuminanti, proprio da luce in fondo al tunnel, sembra si possa davvero dire tutto è bene quel che finisce “bene”… e invece Kusturica e chissà quanti altri prima di lui ci insegnano che se a un certo appare una pistola qualcuno dovrà poi usarla! e allora ti aspetti di tutto: che lui uccida lei, che lui ci si suicidi e chissà cos’altro (in ogni caso ci si aspetta del sangue). Effettivamente quello che sembra l’happy ending, precede di poco il vero finale e quindi anche stavolta Kusturica – o chi per lui – non mente (anche se di sangue non se ne vedrà).
La morale è che l’umanità è potenzialmente sempre una merda, specie se c’è il sesso di mezzo, e che nulla ma proprio nulla (neanche la cosa più importante, neanche la cosa più bisognosa di aiuto, neanche  un figlio) può frapporsi fra l’essere umano e la sua natura.

Forse l’unica differenza fra me e gli altri è che io ho preteso di più dal tramonto. Colori più spettacolari quando il sole arriva all’orizzonte. Forse è questo il mio unico peccato.

Le scene di “tortura” sono secondo me le meno cinematografiche (nel senso tradizionale del termine): le meno eccitanti, le più crude, le meno montate, le più Abdellatif Kechiche style (La Vie d’Adèle, Cous Cous and co., tanto per intenderci) ma soprattutto le più catartiche.
Charlotte Gainsbourg è una dea: la trovo bellissima, tanto più bella quanto più struccata e livida, e bravissima, con dei picchi di intensità emotiva espressa “solamente” dalle labbra leggermente aperte. La trovo tristissima e struggente quando è triste e affranta e fa venire voglia di sorridere grandemente nelle pochissima scene in cui sorride brevemente.
L’uso del paesaggio è quasi psicosomatico, c’è abbondanza del famoso paesaggio/stato d’animo, gli alberi sono ripresi come metafora dell’animo umano e ci si lascia sorprendere dalla scoperta di una natura empatica nei nostri confronti come nessun uomo potrà mai essere.
Infine i dettagli tecnici sono molteplici ed esaltati: uno per tutti le scritte in sovrimpressione e la divisione in capitoli con addirittura un titolo per ogni capitolo, che ricordano molto Tarantino (ma forse è solo che io nella mia grande ignoranza non so da chi abbia tratto ispirazione il buon Quentin); e tutto ciò rende il film scorrevole, digeribile, da ipse dixit, molto meno mattone di quanto abbiano dato a intendere.

Stavolta non metto alcun trailer, perché nel trailer ci sono praticamente solo le scene di sesso (che comunque ci sono, abbondanti e ripetute, ma sono appunto così tante ed eterogenee che quelle 6/7 mostrate nel trailer sono solo uno specchietto per le allodole) e credo attiri/inganni lo spettatore, e io voglio dirvi di andare a vederlo e basta – non voglio attirarvi con l’inganno.

 

A volte occorre sbattere la testa contro un albero per capire ciò che si deve fare, e che il segreto delle cose è privo di significato. Non so perché, ma mi venne in mente che la mia insegnante di inglese al ginnasio ci parlò di un russo che aveva detto che se nella prima metà di un libro compare un pistola, si può star certi che nella seconda sparerà.
(Arizona Dream)

Pride (di Matthew Warchus)

Qualcuno mi ha fatto un regalo. Mi è stata regalata una storia.
Mi è stato possibile essere trasportata a Londra, e poi da Londra al Galles e poi di nuovo a Londra (innumerevoli volte, a dire la verità – e, a dire il vero, me li immaginavo più lontani); ero così trasportata che alla fine mi sono commossa, ma era come commuoversi per qualcosa che era successo a me o a un amico. Ho scoperto che a Londra i gay pride si facevano già negli anni 80 (e c’erano già le stesse vecchie coi cartelli sul bruciare all’inferno e cose simili), ho scoperto che la Thatcher non si è occupata solo dei diritti delle lavoratrici (vedi We Want Sex) ma anche della chiusura delle miniere di carbone, ho scoperto che gli insulti che usano contro di te tu devi farli tuoi. Ho desiderato essere al centro della lotta delle Lesbiche e dei Gay che Sostengono i Minatori e viceversa, ho desiderato potermi vestire anche io con i pantaloni e le bretelle come Boy George o avere i capelli di Cyndi Lauper (ma questa non è certo una novità). Mi sono ricordata che l’AIDS è stata una ghigliottina anche sulla società inglese, mi sono ricordata che in Gran Bretagna la strada dell’accettazione è stata lunga e tortuosa ed è iniziata negli anni 80 (e allora ho sinceramente pensato che ci arriveremo anche in Italia, dove la stessa strada l’abbiamo iniziata a percorrere solo negli ultimi dieci anni), mi sono ricordata che sono orgogliosa di essere quello che sono.
Mi sono stati fatti i regali più belli del mondo: la Scoperta, il Desiderio e il Ricordo. Sono fortunata a ricevere regali così.

As we come marching, marching, un-numbered women dead
Go crying through our singing their ancient call for bread,
Small art and love and beauty their trudging spirits knew
Yes, it is bread we. fight for, but we fight for roses, too.

Consigli per gli acquisti

Se si passa per Milano e si va alla Libreria Internazionale Hoepli in via Ulrico Hoepli, 5 (tra il Duomo e San Babila – e a un passo dai panzerotti Luini, per i più golosi!) e, quando si entra si scende di un piano, si troverà un piccolo mondo nascosto che vende tante cose belle e buone il cui ricavato va ai medici e agli operatori Emergency di stanza in Afghanistan. Vari oggettini artigianali in legno vetro e tessuto, gioielli, prodotti per la cura del corpo (e anche un piccolo angolo con delle mini-trousse Pupa) giocattoli e libri per bambini, stoffe coloratissime, bevande e cibo (anche per celiaci) provenienti da tantissimi progetti di lavoro “eticamente intelligente”.
Per maggiori informazioni, anche su tutti gli altri mercatini Emergency sparsi per l’Italia: http://natale.emergency.it/001/005/015/Dove+e+quando.html

Se invece si sale al primo piano, si può trovare un piccolo corner con due scaffali pieni di libri e dizionari multilingue destinati alla biblioteca del carcere di San Vittore. Si può comprarne uno, che poi verrà donato, oppure comprare dei buoni da 5€, 10€, 15€ o 20€ che verranno spesi sempre per la suddetta biblioteca.
Per maggiori informazioni, e anche per donare direttamente dal sito: www.bibliorete.org/#zanzaunlibro

Shopping Bello e Buono!

Treno di notte per Milano

Viaggio ogni giorno avanti e indietro sulla stessa tratta che entra ed esce da Milano. Soprattutto adesso che la notte arriva presto, fra una stazione e l’altra non si vede nulla (e anche le stazioni alle quali non ci fermiamo – ovvero la maggioranza – sono solo brevi strisce gialloverdi tra un grande buio e l’altro). Ci si mette 25/30 minuti a tratta ed è circa 1 ora della mia giornata che viene impiegata leggendo, scrivendo, pranzando, preparando la lezione per i grandi e ritagliando attività per i piccoli, dormendo rarissime volte. Durante il primo mese di Servizio Civile, soprattutto la mattina, spesso guardavo fuori e mi piaceva riconoscere questo o quel parco piatto, questo o quel prato di conigli. Poi non l’ho più fatto e mi sono dedicata quasi esclusivamente alle mie cose.

Non è la prima volta che vivo da pendolare dentro e fuori da una grande città. L’altra volta era Tokyo. Era quasi un’ora (e mezza, addirittura forse? L’ho già dimenticato) a tratta e purtroppo quasi metà del viaggio era sotto terra e quindi il divertimento di guardare fuori era quasi dimezzato. Eppure tutte (perché lì erano tutte, il treno della metro non ne saltava neanche una) le fermate in città erano colorate, punteggiate di illuminazione notturna e cartelloni pubblicitari. Facevano voglia di scendere a vedere quale mall, galleria, centro commerciale o negozio di tecnologia ci fosse. Però solo fino ad un certo punto, fino alla conurbazione. Poi c’erano un ponte e un fiume da attraversare, grandi campi da golf e arrivava la desolazione urbana edochiana, così simile a quella milanese/varesotta. Anche su quei treni facevo di tutto: compiti per la lezione del giorno, lunghissime partite a Crisis Core: Final Fantasy VII, ascoltare gli Uochi Toki e tutta la buona musica italiana che passava nelle mie cuffie all’epoca, dormire profondamente (anche solo per imitare tutti gli altri frequentatori!). Erano quasi 3 ore della mia giornata, ma mai me ne sarei privata! Non lo consideravo tempo buttato via o rubato alla giapponesità e se ci ripenso ancora oggi creano in me una grande commozione.

Mi accorgo sempre più spesso di commuovermi fino a farmi venire le lacrime agli occhi. Quando parlo dei miei bambini a scuola, dei miei bambini grandi a Casa Onesimo, del mio scoutismo, della mia mamma o del mio papà, del mio divertimento bambino con la Giulia, dello spirito del Pianeta con la Copia la Sasha, Yung Yi, Vytenis e tutti gli altri, delle cose che salvano il pianeta e le persone. Le cose che mi prendono e mi hanno preso mi commuovono; è un dato di fatto.

The look of silence (di Joshua Oppenheimer)

Un film documentario indonesiano (in lingua originale – bellissima – e sottotitolato) che partendo da una strage a fondo labilmente politico accaduta in Indonesia negli anni Sessanta riesce a raccontare l’Indonesia di oggi, quella pubblica/politica e quella privata/politica. Il fratello di un uomo ucciso durante quella campagna anti-comunista controlla la vista degli assassini di suo fratello e fa domande su quello che hanno fatto. La metafora è lì a portata di mano, eppure non scontata. Gli assassini sono ormai vecchi – qualcuno è anche morto e in quel caso parlano le mogli o i figli – ma le reazioni sono agghiaccianti e lasciano senza parole (a volte nel bene, più spesso nel male).
La fotografia è bellissima – l’Indonesia è bellissima – e tutto è narrato ma mai mostrato (e tanto basta).

La madre del narratore ha delle mani bellissime e le rughe del suo viso sottendono il sole indonesiano senza che questo venga mai mostrato durante tutta la durata del film.

Ammette tranquillamente di aver messo al mondo il suo secondo figlio per sopperire alla mancanza del primo, ringrazia dio di aver risposto alle sue preghiere e di averla consolata con la nascita di un figlio così simile a quello precedente. Il rapporto madre-figlio è intenso e sincero e lei gli consiglia cautela (un bastone avvolto in un giornale in caso gli intervistati non reagissero bene) e calma (e lui non la perde mai anche quando insiste con domande dirette e chiare sulle motivazioni di tanta crudeltà e di tanta gloria) come le si consiglierebbe a un compagno di resistenza armata più che a un figlio. Il suono della lingua indonesiana (in alcune parole e alcuni andamenti della frase così simile al giapponese) fa sembrare le conversazioni fra la madre e un padre troppo vecchio e ormai assente una specie di nenia, un racconto da narratori girovaghi tenutari della tradizione orale.

Terribile pensare che di questa Storia, così vicina nel tempo ma così lontana nella quotidianità, non rimanga molto più che un tramandarsi di bocca in bocca di ciò che successe realmente, perché i libri di Storia ufficiali fanno sì che gli insegnanti raccontino alle loro classi una favoletta da regime autoritario. E che gli alunni – nipoti e discendenti proprio di coloro che vennero violentati, sterminati, nascosti – debbano quindi sorbirsi l’imbarazzante storiella sugli scambi di coppie e la miscredenza dei loro zii e dei loro nonni.

La Verità si merita un film come questo.


Joshua Oppenheimer, dall’Indonesia al Lido di Venezia.
Quattordici anni per dare un volto al silenzio

(http://thelookofsilence.com/ – © Joshua Oppenheimer, Byrge Sørensen, Final Cut for Real)

あいまいな日本の私 (aimai na nihon no watashi) Io e il mio ambiguo Giappone

Il Giappone può creare dipendenza. Anzi, il Giappone crea dipendenza. E non sto parlando della sottoscritta (che ogni volta diventa un tutt’uno con tutto ciò che fa, come fosse la prima, l’ultima, l’unica cosa fatta, che farà, da fare), che sarebbe troppo facile, ma sto parlando di persone casuali, sorteggiate nella folla o pescate in una libreria, in una fumetteria, in un supermercato. Ed è un’attrazione che percepisco essere così diversa da quella verso l’Africa (che può essere il ritorno alle origini o il tuffo nella madre terra, la necessità di vedere come sta la parte “sbagliata” del mondo, il bisogno di fare qualcosa per gli altri – forse una piccola dose di altruismo necessaria a lenire il nostro buon vecchio senso di colpa occidentale) o da quella verso gli Stati Uniti (la libertà del sogno americano, gli spazi sconfinati, la differenza fra l’infinitamente piccolo della campagna americana e l’infinitamente grande della metropoli americana) che io non mi so spiegare in maniera chiara e unilaterale. E quando mi chiedono: ma perché proprio il Giappone?? io ho sempre bisogno di molto tempo e di molta pazienza da parte del mio interlocutore. Credo che il Giappone sia una metafora di me stessa – e per questo lo amo e per questo lo odio.

Rispondo che il Giappone più l’ho conosciuto più mi ha respinto. La stratificazione sociale, l’etichetta femminile, la rigida divisione fra le classi, il futuro inevitabile e precostituito sono tutte cose che mi hanno fatto chiedere se era il posto giusto per una come me. Eppure tutte queste cose appena elencate sono raziocinio, sovrastrutture e sottopensieri, perché alla sola idea di poterci tornare mi spunta un ampio sorriso sulle labbra! Mi basta un’occhiata a un blog come quello di Laura Imai Messina perché la voglia di Giappone riaffiori chiara, netta e decisa. Cibo, colori, alberi, vestiti, caos, volti, metropolitane, strade, suoni, edifici. Quando qualcuno ti racconta del Suo Giappone è facile che l’insieme intersezione col Tuo Giappone abbia sempre qualche elemento.

L’idea di andare a vivere in Giappone mi attirava moltissimo tra la fine delle superiori e la fine della specialistica. Diciamo che era lo sprone che mi spingeva ad andare avanti nonostante tutto e nonostante tutti e che riuscivo ad affrontare le mie cose – adolescenziali prima e tardoadolescenziali poi – con la giusta leggerezza e noncuranza nei confronti delle loro conseguenze (tutte conclusioni che ovviamente raggiungo oggi, a distanza di qualche anno) in virtù del fatto che tanto un giorno me ne sarei andata e avrei potuto ricominciare tutto da zero da qualche altra parte…quindi tanti saluti! Vi piaccio? Non vi piaccio? Tanto massimo 2/3 anni me ne vado! Forse questo mio modo di affrontare la vita (che ho quasi da sempre e che tutt’ora mi riconosco) è frutto del mio essere girovaga e senza radici sin da piccola? Ovviamente la risposta non la so, ma tant’è.

Inoltre ultimamente sono sempre più mortificata dalla percezione di quanto sia difficile parlare in un’altra lingua. E non parlo di sopravvivenza o di efficacia comunicativa, ma delle sfumature necessarie a parlare di sé, dei propri sentimenti e del proprio punto di vista sul mondo. Quando mi accorgo che lo so fare in inglese mi sento davvero molto brava! Per non dire delle pochissime volte in cui sono stata in grado di farlo in giapponese, verso la fine del mio soggiorno a Tokyo. Eppure, quando torno alla libertà del Mio italiano, mi accorgo che quello che ero riuscita a dire nell’Altra lingua era quasi nulla. Come si fa a parlare di amore, di futuro, di figli, di divergenze col proprio partner in una lingua che non è la propria? Si deve avere veramente una testa doppia, tripla, quadrupla…gigante! Oppure, come in tanti casi, bisogna avere gradi superiori di pazienza, umiltà, capacità di dare alle cose la giusta importanza.

Insomma, il corso delle cose ha voluto che io trovassi (ritrovassi?) delle persone e delle situazioni alle quali non avevo più bisogno di dire “fanculo! tanto fra 2 anni non ci vedremo più!” proprio Qui e Ora, senza bisogno di scappare dall’altra parte del mondo. Tanto più che il paradiso dell’eterno dualismo Tradizione-Innovazione, Antico-Nuovo, Occidente-Oriente, Natura-Metropoli che conosciamo bene noi che il Giappone l’abbiamo letto studiato amato tradotto scoperto sui libri di scuola, è appunto un paradiso e come tale va immaginato e visto ma solo da lontano. Il Giappone della perfetta armonia tra ognuno dei suoi due risvolti della medaglia è qualcosa a cui si può credere come quando da bambini si pensava che i genitori fossero sempre allineati su tutto. Col tempo ho imparato che alcune parti di me erano meglio espresse in Italia piuttosto che in Giappone – e questo certamente non me lo sarei mai potuto immaginare! Con tutte quelle Gothic Lolita, tutti quegli shōjo manga, tutta quell’attenzione alla natura, tutto quel silenzio dei templi, tutti quei mezzi di trasporto superefficienti, tutti quei giapponesi…doveva per forza essere il posto giusto per me!! Eppure…

 

Da molti anni non mi chiedo più
quale posto è la mia casa
ho scoperto che la mia casa
è insieme a me dovunque vada.

“Città aperta” di Teju Cole

Poi scrivo lunghe lettere a mio fratello minore, che ha vent’anni. Questo è uno degli scopi dei miei studi: non dico ai miei fratelli più giovani cosa devono pensare, ma voglio aiutarli a imparare a pensare; voglio che sappiano che possono valutare le situazioni e arrivare a una conclusione.

Salvare d’istinto un bambino, un po’ di felicità; qualche ora con i ruandesi, quelli che erano sopravvissuti, un po’ di tristezza: l’idea del nostro anonimato finale, un altro po’ di tristezza, il desiderio sessuale soddisfatto senza complicazioni, un altro po’ di felicità, e avanti così, un pensiero dopo l’altro. La condizione umana mi pareva meschina, l’essere soggetti a quella lotta costante per modulare l’ambiente interiore, sballottati come nuvole.

Questa storia, narrata infinite volte, ha conservato il potere di accelerare il battito del cuore: si spera sempre, segretamente, che le cose finiscano in modo diverso e che la cronaca di quegli anni mostri che i torti furono in realtà su una scala più simile al resto della stria umana. L’enormità di quello che invece accadde davvero, a prescindere da quanto sia ormai familiare, a prescindere da quanto spesso sia ormai reiterato, lascia sempre senza parole.

Quell’improvvisa debolezza mentale, pensai (mentre la macchina mi chiedeva se volevo provarci ancora – a inserire il pin ndr – e io sbagliavo di nuovo), era una versione semplificata del sé, un’area di smarrimento che aveva sostituito qualcosa di più stabile. Anche rompersi una gamba aveva lo stesso effetto: all’improvviso ci si sentiva sminuiti, e si camminava come una comprensione incompleta del significato di camminare.